N.1 2015 - L'accesso alla conoscenza

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Il futuro delle biblioteche digitali si costruisce dal basso. Intervista a Robert Darnton

Gino Roncaglia

Dipartimento di Studi linguistico-letterari, storico-filosofici e giuridici, Università della Tuscia; mc3430@mclink.it

Abstract

Intervista a Robert Darnton

English abstract

Interview with Robert Darnton

Robert Darnton è una delle figure che meglio rap­presentano, oggi, l’incontro fra tre mondi che hanno più che mai bisogno di una stretta collaborazione: la solidità storica e critica della ricerca accademica tradizionale, il mondo delle biblioteche e dei servizi bibliotecari, e la nuova realtà rappresentata dall’eco­sistema informativo digitale.

Storico illustre, ben noto per i suoi fondamentali la­vori sulla vita culturale francese nella seconda metà del XVIII secolo, Darnton ha sempre posto al centro della sua attenzione le pratiche di produzione mate­riale e di circolazione della cultura, dedicando parti­colare attenzione alla storia del libro e al ruolo delle biblioteche. Proprio questa attenzione verso il mondo bibliotecario lo ha portato ad accettare, nel 2007, il ruolo di direttore della Harvard University Library.

Fra i pionieri della riflessione in ambito accademico sulla natura e sul possibile ruolo dell’editoria elettro­nica e degli e-book, sia per quanto riguarda le carat­teristiche del libro come strumento di produzione e trasmissione della cultura, sia relativamente alle con­seguenze della rivoluzione digitale nel mondo biblio­tecario, Darnton è autore di una serie di importanti contributi critici sul progetto di digitalizzazione libraria avviato da Google, ed è stato fra i promotori dell’inizia­tiva che ha portato alla creazione della Digital Public Library of America (DPLA).

Della creazione negli Stati Uniti di una biblioteca di­gitale “pubblica” – capace di rispondere alle iniziative private come quella di Google adottando un modello diverso, aperto e interoperabile, di raccolta e diffusio­ne dei contenuti – si è parlato per la prima volta du­rante un incontro svoltosi nell’ottobre 2010 a Cambridge (MA) con la partecipazione di una quarantina di bibliotecari, ricercatori ed esperti. La DPLA – che funziona in primo luogo da aggregatore di risorse, condivise attraverso l’adozione di metadati standar­dizzati con un modello abbastanza vicino a quello adottato in Europa da Europeana – ha visto ufficial­mente la luce tre anni dopo, nell’aprile 2013, ed è oggi diretta da un comitato guidato da Dan Cohen, che ha la funzione di direttore esecutivo del progetto. Ha da poco superato il traguardo dei 10 milioni di item, e il suo sito web è all’indirizzo <http://dp.la>. In questa intervista, raccolta via e-mail nel marzo scor­so, Robert Darnton ci parla della DPLA, del suo fun­zionamento e delle sue prospettive, ma anche – più in generale – del panorama internazionale nel campo della digitalizzazione bibliotecaria. Con qualche considera­zione dedicata anche al suo ultimo libro, uscito l’anno scorso negli Stati Uniti e in corso di traduzione in Italia.

 

Il panorama delle biblioteche digitali include oggi sia progetti “pubblici” sia progetti finanziati e/o gestiti da aziende private come Google. Ma il panorama effet­tivo in quest’ambito è ancor più complesso: progetti di interesse pubblico possono essere finanziati attra­verso donazioni o contributi privati, e sono possibi­li accordi di partnership fra biblioteche pubbliche e progetti promossi da soggetti privati. Qual è il suo punto di vista su questo panorama, e quali sono a suo avviso i criteri da adottare per valutare i diversi modelli possibili, e per scegliere fra di essi?

È vero, il panorama digitale è assai complicato e ci sono molti modelli possibili per finanziare progetti di interesse pubblico. A mio avviso, il pericolo maggiore è la commercializzazione. Le biblioteche sono spesso contattate da soggetti commerciali interessati a digita­lizzare le collezioni, con lo scopo di vendere l’accesso, con vincoli a volte limitati e a volte di lungo periodo, come nel caso del contratto di venticinque anni stipu­lato da Google con la Biblioteca municipale di Lione. Dato che le biblioteche non hanno i fondi necessari per finanziare direttamente progetti di digitalizzazione di larga scala, è comprensibile che abbiano la tentazione di stipulare accordi esclusivi con soggetti commerciali. Penso però che a questa tentazione si debba resiste­re. Il criterio principale deve essere quello dell’interes­se pubblico, e spesso questo criterio finisce per esse­re dimenticato nel corso delle negoziazioni.

Qual è la sua valutazione del progetto Google Books di digitalizzazione bibliotecaria oggi, a dieci anni dal suo lancio nel dicembre 2004? Pensa che Google abbia risposto ad alcune delle critiche che lei stes­so e altri studiosi e ricercatori avevano sollevato in passato? Vi sono altre questioni critiche che sono emerse nel frattempo?

Google Book Search è un progetto ormai morto. È stato riconosciuto come violazione dello Sherman An­titrust Act da una Corte federale distrettuale di New York. Google intendeva originariamente usare la sua collezione di testi digitalizzati come base per un ser­vizio di ricerca, e questo obiettivo all’inizio sembrava eccellente. Ma davanti al processo legale per violazio­ne di copyright, Google preferì mettersi d’accordo con la Authors League e con la Association of American Publishers trasformando il servizio di ricerca in una bi­blioteca commerciale. Google voleva in sostanza far pagare a biblioteche come Harvard un abbonamento per accedere alla versione digitalizzata dei loro stes­si libri, e dunque a libri che proprio quelle biblioteche avevano permesso a Google di scannerizzare gratu­itamente. Il costo di questo abbonamento rischiava peraltro di salire nel tempo, come quello relativo agli abbonamenti alle riviste accademiche e di ricerca, che sta oggi rovinando il budget delle biblioteche.

Oggi Google vende l’accesso a libri sotto copyright attraverso accordi con gli editori, in forme non troppo lontane da quelle di Amazon. E in questo non vedo nessun pericolo, così come non ne vedo nella digita­lizzazione da parte di Google di libri di pubblico do­minio, anche se desidererei che potessero svolgere quest’ultimo compito in maniera un po’ migliore di quanto non riescano effettivamente a fare.

Lei è stato tra i fondatori della Digital Public Library of America (DPLA). Qual è oggi il suo ruolo nel progetto, e qual è la sua valutazione sui risultati ottenuti finora dalla DPLA?

La DPLA è nata da un incontro informale svoltosi a Harvard nell’ottobre 2010. Si è trattato fin dall’inizio di un progetto collettivo, e non vorrei considerarme­ne il “padre fondatore”. Il mio ruolo è stato quello di organizzare il primo incontro, e da allora sono stato certo profondamente coinvolto dal progetto. Ora che la DPLA è diventata un’organizzazione no-profit, fac­cio parte del suo Consiglio e faccio tutto quello che posso perché l’iniziativa possa funzionare al meglio. E sta funzionando al meglio, in gran parte per merito del suo eccellente direttore esecutivo, Dan Cohen. Lui e il suo staff, con sede in Boston, gestiscono tutte le attività della DPLA, con la supervisione del Consiglio. Dal suo lancio nell’aprile 2013, la DPLA ha più che triplicato i suoi contenuti, che oggi consistono in circa dieci milioni di oggetti digitali, e ha sviluppato una serie di “filiali”, che oggi esistono in ogni stato USA. Fra le altre cose, lo staff delle filiali stimola le biblioteche pubbliche locali a sviluppare le proprie ri­sorse, e quindi a digitalizzare materiali che vengono raccolti anche dalle collezioni di privati che metto­no a disposizione lettere, fotografie ecc. Gli esperti collegati con la DPLA, inclusa una piccola schiera di “rappresentanti di comunità” volontari, aiutano i bibliotecari nel lavoro di acquisizione via scanner, nella predisposizione dei metadati, nel lavoro di cura e conservazione. Questo favorisce la costituzione di comunità culturali attorno alle biblioteche pubbliche, e l’integrazione delle loro collezioni digitali all’interno della rete nazionale offerta dalla DPLA.

Questo programma di azione dal basso illustra bene il carattere orizzontale della DPLA. Anziché funzio­nare come un’organizzazione guidata dal vertice, si basa sull’iniziativa di persone distribuite in tutto il Pa­ese. Non ha ancora un proprio database. Ha invece sviluppato (con l’aiuto di 1.100 esperti informatici vo­lontari) una superba infrastruttura tecnica e strumenti per il coordinamento dei metadati, in modo da ren­dere disponibili per tutti – in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti – le collezioni già digitalizzate di oltre duemila biblioteche di ricerca. Le sue infrastrutture sono disegnate in modo da risultare interoperabili con quelle di Europeana. Abbiamo lavorato con Europeana fin dall’inizio, e il nostro obiettivo è arrivare al giorno in cui vi potrà essere una biblioteca digitale mondiale, capace di garantire accesso gratuito al pa­trimonio culturale di tutto il mondo.

Qual è il modello di finanziamento della DPLA? E come dovrebbe essere finanziata, a suo avviso, una biblioteca digitale “pubblica”, considerati i tagli nei fi­nanziamenti pubblici che hanno purtroppo colpito il settore bibliotecario sia negli Stati Uniti sia in Europa?

Per quanto riguarda i finanziamenti, la DPLA non è in competizione con le biblioteche pubbliche, perché non si finanzia attraverso tasse locali. Riceve i propri finanziamenti da diverse fondazioni, e dipenderà dal loro sostegno per circa cinque anni. Dopo di allora, speriamo che abbia dimostrato di essere così utile e importante da essere finanziata anche dal Congresso.

Nel 2011, i responsabili delle agenzie bibliotecarie statali chiesero al Comitato di gestione della DPLA di riconsiderare la scelta del nome “Digital Public Library of America”, temendo che l’uso del termine “public” potesse avere la conseguenza indesiderata di offrire ai governi locali un pretesto per ridurre i fi­nanziamenti alle biblioteche pubbliche. Qual è la sua opinione su questa richiesta, e qual è la differenza fra lo status “pubblico” di una biblioteca pubblica e quello di un progetto come la DPLA?

È vero, alcuni bibliotecari di biblioteche pubbliche han­no sollevato obiezioni sull’uso dell’aggettivo “public” nel nome della DPLA. L’obiezione non riguardava i principi su cui si fonda la DPLA: la loro preoccupazio­ne era piuttosto che l’esistenza della DPLA potesse offrire dei pretesti alle autorità locali per tagliare ulte­riormente i fondi assegnati alle biblioteche locali. Abbiamo discusso a lungo sulla proposta di cambiare il nome della DPLA, ma alla fine non abbiamo trovato un nome che ci sembrasse davvero migliore. Abbia­mo però aperto la nostra organizzazione ai bibliote­cari pubblici, da quelli della New York Public Library a quelli di piccoli paesi del Midwest. Abbiamo avuto molti incontri con loro, e li abbiamo invitati fin dall’inizio a contribuire nel dar forma alla DPLA. La loro risposta è stata molto positiva, e credo che questo conflitto potenziale sia oggi completamente superato.

Servizi di abbonamento a pacchetto commerciali come Kindle Unlimited sembrano offrire ai lettori prestazioni abbastanza simili al prestito digitale offerto da molte bi­blioteche pubbliche. Quale sarà a suo avviso il futuro del prestito digitale bibliotecario in questo nuovo panorama?

Il futuro del prestito digitale bibliotecario è difficile da prevedere, ma c’è un fattore che lo limita in tutte le sue forme: il copyright. Nessun servizio commerciale può vendere abbonamenti a libri sotto copyright sen­za aver ricevuto una autorizzazione dal detentore dei diritti. La DPLA rende disponibili solo libri in pubblico dominio. Il nostro problema principale è proprio ga­rantire la disponibilità di libri ancora coperti da copy­right – tutti quelli pubblicati dopo il 1964 e la maggior parte di quelli pubblicati dopo il 1923 – ma non siamo in competizione con il mercato commerciale attual­mente esistente. Se riusciremo a garantirci il soste­gno di autori ed editori, potremo riuscire a rendere disponibili libri che da tempo non vendono più, ma che possono ancora interessare i lettori. Il principio del “fair use” e l’evoluzione della giurisprudenza nei tribunali aprono alcune speranze al riguardo.

Abbiamo anche fondato una “Authors Alliance” attra­verso la quale gli autori potranno cedere volontaria­mente alla DPLA l’esercizio dei propri diritti, o sem­plicemente rendere disponibili i loro libri attraverso una licenza Creative Commons. È quanto ho già fatto anch’io per due dei miei libri. Una volta che la vita com­merciale di un libro è terminata, il desiderio maggiore di un autore è quello di avere lettori. La DPLA può essere di aiuto per la realizzazione di questo obiettivo. Nel frattempo, Amazon e le altre aziende si daran­no battaglia per il controllo del mercato degli e-book commerciali. Non so come si svilupperà il rapporto fra libri a stampa ed e-book, ma sono convinto che i libri di carta continueranno a esistere almeno per il futuro prevedibile. L’anno scorso, il numero di libri a stampa pubblicato negli Stati Uniti – così come a livello mondiale – è stato maggiore di quanto non sia mai stato in passato. L’opinione diffusa che digitale e analogico siano nemici è sbagliata: sono alleati. La nostra sfida è quella di dar forma a questa alleanza nel modo più vantaggioso per gli interessi pubblici.

Il suo ultimo libro (Censors at Work: How States Shaped Literature, New York (NY), W. W. Norton & Company, 2014) riguarda la censura e il modo in cui la censura ha influenzato il mondo letterario e culturale. Nell’am­biente digitale, le forme tradizionali di “censura digi­tale” sembrano essere meno efficaci. Ma è davvero così? Pensa vi sia il rischio di forme nuove e più sottili di “censura digitale”?

Nel libro ho sostenuto che vedere la censura semplice­mente come un conflitto fra libertà e repressione non è una rappresentazione adeguata del fenomeno. Na­turalmente, questo conflitto esiste, ma il nostro scopo dovrebbe essere quello di capire la censura, non sem­plicemente di deplorarla. E la comprensione richiede, credo, la capacità di approfondire il funzionamento dei sistemi di censura, di capire in che modo i censori svol­gevano concretamente il loro lavoro, di capire come lo consideravano, e in che modo le loro attività rientravano nell’obiettivo più generale di controllare la cultura.

Nel caso del mondo digitale, suggerirei di adottare lo stesso metodo, e dunque di studiare da vicino gli aspetti operativi della censura. Alcuni studi di questo tipo esi­stono già: sappiamo ad esempio come gli esperti e i sistemi di controllo informatico cinesi possano blocca­re i messaggi adottando livelli variabili di interferenza, e come gli utenti cinesi possano aggirare la grande “mu­raglia digitale” dei firewall governativi migrando da un sito web all’altro. È il gioco del gatto e del topo. Ma alla fine, vincerà il gatto o il topo? Non saprei dirlo.