N.1 2019 - Valutare la biblioteca

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Biblioteche accademiche, comunicazione scientifica e valutazione della ricerca: nuovi ruoli e sfide per i bibliotecari delle università

Domenico Ciccarello

Servizio per la ricerca e la diffusione della conoscenza, Università degli studi di Palermo; domenico.ciccarello@unipa.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 31 maggio 2019.

Abstract

Diversi fattori sono intervenuti, in questi ultimi anni, a modificare lo scenario delle competenze e delle prospettive dei bibliotecari accademici a supporto della composita mission degli atenei (ricerca, didattica, terza missione). La stagione, non ancora conclusa, dell’integrazione e dell’affinamento di strumenti di nuova generazione nei servizi di information retrieval, reference remoto e gestione delle collezioni digitali ha già posto le basi per nuovi ruoli e sfide per i bibliotecari delle università in rapporto a quello che si vorrebbe fosse un “ecosistema della comunicazione scientifica e della valutazione della ricerca”.

Ciò avviene, tuttavia, in un paesaggio che vede i grandi editori internazionali muoversi in modo più rapido, e spesso più efficace, rispetto alle politiche istituzionali; il quadro appare fortemente mosso anche per via delle molteplici iniziative di academic research exchange che, a dispetto dei loro connotati marcatamente commerciali, stanno ottenendo facili successi. Il risultato è che, da un lato, il movimento Open Access fatica ancora a compiere l’auspicata rivoluzione nelle pratiche della comunicazione scientifica ed è lontano dall’avere raggiunto l’obiettivo di favorire una maggiore indipendenza dei ricercatori da vincoli finanziari nell’esposizione delle loro attività di ricerca; dall’altro, gli esercizi di valutazione e misurazione della ricerca scientifica da parte delle agenzie nazionali dipendono sempre più dalle scelte adottate dei principali produttori di database citazionali.

Quali le possibili vie d’uscita? E il ruolo dei bibliotecari accademici può essere rilevante? Si suggeriscono alcuni percorsi praticabili: la consulenza personalizzata agli autori dell’ateneo, per sostenerne gli sforzi volti a ottimizzare l’impatto qualitativo e citazionale dei loro prodotti anche al di là degli oligopoli editoriali; il supporto alla governance di ateneo nella creazione di strategie e strumenti efficaci per l’OA × a cominciare dalla university press; le attività tecniche di manutenzione degli archivi istituzionali, anche contribuendo direttamente al miglioramento della qualità delle informazioni nei database citazionali. A ciò va aggiunta la capacità dei bibliotecari di sostenere efficacemente la ricerca istituzionale e la sua evaluation complessiva tramite la partecipazione attiva ad iniziative di promozione e divulgazione della ricerca, per un migliore impatto territoriale, sia sul piano più strettamente scientifico che in senso più ampio, sul piano economico-sociale (cosiddetto public engagement ovvero sostegno alla terza missione degli atenei).

English abstract

In recent years, several factors have been affecting the range of competencies which academic librarians should be able to offer in support of the composite mission of universities (research, education, third mission). The season of the integration and refinement of new generation tools for remote reference services and digital collection management in research libraries is not complete yet. Such process, however, has already set the stage for new roles and challenges for university librarians, in relation to what we would like to regard as “the ecosystem of scientific communication and research evaluation”.

Actually, this happens in a scenario where the major international publishers are moving more quickly, and often more effectively for their business, than public institutions in implementing their own policies. The landscape appears quite mutable also because of the many initiatives for digital sharing of academic research, which, despite their markedly commercial features, are gaining easy success among scholars. As a result, on the one hand, the Open Access movement still struggles to fulfil the desired revolution in the practices of scientific communication: OA initiatives seem far from achieving the objective of full researchers’ independence from financial constraints in the exposure of their research outputs. On the other hand, the assessment procedures for measuring scientific research run by national agencies are increasingly dependent on the choices adopted by the main producers of citation databases.

What are the possible ways out? Can the role of academic librarians be relevant? Some workable paths are suggested here. The first is to develop a service of customized advice to university’s authors, with an aim at helping them to optimize the qualitative and citation impact of their products beyond the publishing oligopolies. The second is to support the university’s governance in the creation of effective strategies and tools for OA, and the university press before all. The third relates to the technical maintenance of the institutional repositories, also by directly contributing to the improvement of the quality of information present in international citation databases.

Biblioteche accademiche ieri e oggi

Per la maggior parte del XX secolo, le biblioteche di università ed enti di ricerca hanno accompagnato la vita dei loro istituti secondo cicli evolutivi tutto sommato abbastanza lineari e largamente programmabili. In un contesto tendenzialmente omogeneo quanto a supporti e formati dell’informazione, anche se gradualmente popolato da nuovi elementi a carattere multimediale, i bibliotecari erano chiamati a conformare i servizi offerti ai programmi didattici e ai filoni di ricerca privilegiati dai docenti. L’azione delle biblioteche mirava, in generale, al rafforzamento delle diverse vocazioni disciplinari presenti, adeguandosi all’ampliamento progressivo sia dei contenuti scientifici disponibili per l’acquisizione, che della platea dei destinatari.

L’avvento dell’università di massa e gli sviluppi normativi del settore (a partire dalla dipartimentalizzazione delle cattedre e degli istituti preesistenti al d.P.R. n. 382/1980) hanno prodotto una prima accelerazione significativa nei processi di trasformazione e ristrutturazione delle funzioni delle biblioteche accademiche, a supporto della «organizzazione di uno o più settori di ricerca omogenei per fini o per metodo e dei relativi insegnamenti anche afferenti a più facoltà o più corsi di laurea della stessa facoltà». In questo passaggio fondamentale, iniziato intorno agli anni Ottanta del secolo scorso e consolidatosi nei decenni successivi, la possibilità di sfruttare le nuove tecnologie dell’informazione e i paradigmi organizzativi della cooperazione bibliotecaria hanno agito da catalizzatori per un rinnovamento profondo delle biblioteche accademiche, favorendo la creazione dei sistemi bibliotecari di ateneo e lo sviluppo di accordi consortili tra più atenei per ottimizzare l’attività catalografica delle biblioteche ma soprattutto migliorarne la performance in diversi altri target di servizio: acquisizione di risorse elettroniche (banche dati, e-journal, e-book), prestito interbibliotecario e document delivery, senza dimenticare i servizi di reference remoto che molte università hanno sviluppato in modalità distribuita e coordinata in seno al proprio sistema bibliotecario; ed esiste, in qualche caso, una dimensione cooperativa più ampia, che si traduce in servizi interateneo.

Diversi fattori sono successivamente intervenuti a modificare ancora, e in modo rilevante, lo spettro delle competenze richieste ai bibliotecari accademici per supportare adeguatamente la composita mission degli atenei (ricerca, didattica, terza missione). Da un lato, è vero che l’offerta documentaria complessiva delle nostre biblioteche universitarie è notevolmente cresciuta, sia sul piano dell’accessibilità ai metadati informativi che sul piano della disponibilità reale dei contenuti per gli utenti finali, grazie alla diffusione di diverse tipologie di strumenti e risorse digitali, che vanno dai discovery tool alle piattaforme di e-learning ai diversi archivi digitali, istituzionali o disciplinari. Dall’altro, tuttavia, non possiamo ritenere ancora conclusa la fase della piena integrazione e del perfezionamento degli strumenti di nuova generazione nei servizi di reference e di archiviazione/conservazione/fruizione digitale dei contenuti. Tutto ciò impone tuttora un grande sforzo dei bibliotecari accademici nel mettere in piedi dispositivi di assistenza e orientamento più o meno disintermediati, diversificati e tra loro complementari, per favorire il migliore uso delle risorse da parte degli utenti: dalle semplici guide o tutorial ai servizi just in case (ma anche just in time) come “Ask a librarian”, fino a veri e propri programmi strutturati di information literacy o alle attività di disseminazione selettiva dell’informazione (SDI) e di consulenza bibliografica personalizzata: la biblioteca accademica “self-service” semplicemente non esiste.

In anni più recenti, come sappiamo, ulteriori trasformazioni nell’ambito della comunicazione scientifica e della misurazione della performance degli atenei hanno già posto le basi per nuovi ruoli e sfide per i bibliotecari delle università, in particolare in rapporto a quello che si vorrebbe fosse un “ecosistema della comunicazione scientifica e della valutazione della ricerca”. Su queste nuove evoluzioni (o rivoluzioni?), che riguardano il possibile ruolo attivo dei bibliotecari in questioni di grande portata per il presente e il futuro delle università, come l’accesso aperto, la bibliometria e il public engagement, ci soffermeremo nel presente contributo.

L’accesso aperto e il ruolo dei bibliotecari

La nascita dell’Open Access movement è sicuramente la novità di maggiore rilievo da registrare nel panorama internazionale della comunicazione scientifica all’inizio del nuovo millennio. In modo tutto sommato rapido anche se per tappe successive, dalle prime enunciazioni di principi, alla definizione delle strategie; dall’adozione di policy OA nei diversi ambiti istituzionali: governi e agenzie nazionali e sovranazionali, finanziatori, società scientifiche, istituti accademici, alla loro implementazione con l’ausilio di nuovi servizi, infrastrutture e strumenti informativi (ma anche giuridico-legali) progettati per ospitare al meglio l’openness dei prodotti, dei dati e dei software della ricerca, l’accesso aperto indubbiamente è ormai penetrato stabilmente nel sistema dello scholarly publishing, come mostrano numerosi progetti/programmi volti a favorirne l’attuazione, ma permangono resistenze, pregiudizi, scetticismi, ambiguità, falsi amici che ne limitano fortemente la portata. In Italia, l’Open Access rappresenta un banco di prova molto importante anche per la Conferenza dei rettori, essendo evidente che il ruolo di CARE-CRUI si sia per forza di cose esteso al di là di questioni tecniche legate alle negoziazioni degli accordi consortili, vista la necessità improcrastinabile di affrontare anche alcune questioni politiche di estrema rilevanza in rapporto alla posizione dominante dell’oligopolio internazionale del mercato editoriale. Fermandoci un attimo a considerare l’identità della biblioteca accademica in rapporto a questi cambiamenti in atto, l’aspetto più significativo risiede senz’altro nel fatto che i bibliotecari delle università possono essere considerati non più soltanto mediatori nell’acquisire i materiali documentari per poi farsi garanti delle regole d’uso rivolte agli utenti accreditati, ma ora promotori attivi e potenzialmente partecipi in tutte le fasi del ciclo di pubblicazione, contribuendo direttamente all’organizzazione e alla disseminazione dei contenuti prodotti dagli autori della propria istituzione:  

Under the subscription model, the role of libraries was to buy or license content on behalf of their users and then act as gatekeepers to regulate access on behalf of rights holders. In a world where all research is open, the role of the library is shifting from licensing and disseminating to facilitating and supporting the publishing process itself.

La letteratura ha ampiamente dimostrato la validità e la sostenibilità dei modelli di comunicazione scientifica basati sull’accesso aperto, come anche il bilancio positivo dell’apporto delle biblioteche universitarie all’interno di questi processi. In concreto, come sappiamo, tale funzione proattiva delle biblioteche di ricerca nel promuovere l’OA si esplica in almeno due direzioni, meglio se assistita da politiche istituzionali lungimiranti.

La prima è incoraggiare il sostegno alla gold road da parte dei bibliotecari, i quali non soltanto possono contribuire, con riferimento ai diversi ambiti disciplinari, all’individuazione da parte degli autori delle collocazioni editoriali open che sembrino più opportune per contenuto, affidabilità, qualità, conformità ai protocolli e agli standard, impatto potenziale; ma anche (e direi soprattutto) sono in grado di partecipare materialmente alla creazione e gestione in-house di piattaforme editoriali open source di qualità certificata, adatte a ospitare dei framework o contenitori scientifici OA di diversa tipologia (e-journal, serie di e-conference, collane tematiche di e-book) destinati prioritariamente ad accogliere gli output di ricerca degli autori di ateneo. Volutamente non uso qui l’espressione university press (UP) in quanto sappiamo che i modelli finanziari delle imprese editoriali in seno agli atenei, nei fatti, possono essere molto diversi tra loro, come dimostra il caso anglosassone, segnato da una prestigiosa tradizione editoriale accademica di tipo commerciale, sebbene anche lì la situazione si stia gradualmente diversificando. Certo è che, laddove vi sia una partecipazione attiva dei bibliotecari alla realizzazione di UP, come negli USA dove la Library Publishing Coalition (LPC) ha dato vita a numerose realizzazioni di tipo academic library press (ALP), il modello corrisponde più pienamente alla vocazione open dell’editoria accademica. Da questo punto di vista, il cammino da percorrere in Italia è avviato ma ancora lungo, come dimostrano le scarse e solo parzialmente incoraggianti risposte al questionario proposto per iniziativa del Master internazionale Digital Library Learning (DILL) della Tallinn University (Estonia) e dell’Università degli studi di Parma in collaborazione con la Commissione nazionale Biblioteche delle università e della ricerca (CNUR) dell’AIB.

La seconda direzione consiste nell’incentivare il supporto dei bibliotecari alla green road permettendo loro di intervenire in tutte le componenti che migliorano la coerenza, la completezza e l’attendibilità dei metadati e dei documenti full text archiviati dagli autori nell’open repository di ateneo, così potenziando in modo decisivo il valore informativo e la disseminazione aperta dei contenuti istituzionali verso la comunità scientifica globale. Ciò viene perseguito tramite compiti che, per quanto tradizionali possano apparire considerando la “cassetta degli attrezzi” del bibliotecario, in realtà negli ambienti digitali possono condurre a risvolti e conseguenze nient’affatto banali sul piano dell’efficacia della comunicazione scientifica a vantaggio dei nostri ricercatori. Mi riferisco ad attività quali la disambiguazione dei profili dei ricercatori (oggi resa più agevole dall’adozione generalizzata di ORCID) e del cross-reference tra gli ID dei ricercatori e le pubblicazioni di loro pertinenza, l’eliminazione dei duplicati dall’archivio, la configurazione dei set di metadati e il controllo accurato di alcuni passaggi-chiave del flusso di archiviazione nel repository (in particolare: la completezza e coerenza delle informazioni che descrivono la pubblicazione; la corretta associazione di tipologie e codici identificativi ai prodotti; la verifica del corretto popolamento degli archivi con il full text delle pubblicazioni degli autori in modalità aperta, e il controllo della conformità con i permessi di deposito/riuso indicati nel copyright agreement tra autori ed editori).

Del resto, bibliotecari e ricercatori sono altrettanto consapevoli della correlazione positiva tra modalità open di pubblicazione e boosting del citation index per i contributi scientifici. Un articolo recentemente diffuso da un gruppo di studiosi canadesi e statunitensi sulla rivista di preprint OA PeerJ, mentre conferma il vantaggio citazionale della letteratura scientifica open access (gli articoli di periodici OA pubblicati fino al 2015 hanno ricevuto intorno al 18% di citazioni in più di quelli in abbonamento), offre all’attenzione della comunità una nuova espressione, quella della letteratura bronze OA, ovvero “accessibile gratuitamente nonostante l’assenza di esplicite licenze editoriali in tal senso”; ma l’inclusione di tale categoria appare piuttosto discutibile, specie se confrontata con i principi cardine dell’open access movement (in particolare il concetto di riuso delle pubblicazioni e la garanzia di interoperabilità tramite il protocollo OAI-PMH per l’harvesting dei loro metadati)

Una transizione complicata

Ma allora, di fronte a un ventaglio così ampio di opportunità, cos’è che davvero frena il pieno sviluppo dell’OA nei nostri atenei? Universities UK, che coordina la missione di 136 università del Regno Unito, nel 2017 (a cinque anni dal precedente Finch Report) ha promosso un nuovo studio, che è stato condotto e realizzato da un apposito gruppo di esperti. Nel rapporto che ne è scaturito, Monitoring the transition to open access, partendo dalla premessa che per gli autori del mondo accademico l’opzione OA in concreto dipende dalle alternative loro disponibili all’interno del portfolio di riviste in cui vorrebbero vedere pubblicati i loro lavori, si evidenziano i quattro fattori-chiave che più incidono sulla piena realizzazione della transizione dell’editoria scientifica (internazionale e, nello specifico, britannica) verso l’Open Access: 1) l’aumento della percentuale di riviste rispettivamente fully OA rispetto a quelle hybrid OA e a quelle “non-OA” cioè interamente a subscription; 2) il calmieramento dei livelli di costo delle APC per gli articoli pubblicati nelle riviste fully OA o hybrid OA; 3) la disponibilità di licenze CC per i medesimi articoli; 4) la diminuzione dei tempi di embargo per la pubblicazione open degli articoli pubblicati nelle riviste con modello tradizionale (subscription). Di recente, facendo leva sulle criticità connesse a questi quattro fattori, una coalizione di enti finanziatori della ricerca in Europa (tra cui l’European Research Council - ERC e, in Italia, l’Istituto nazionale di fisica nucleare - INFN) ha provato a imprimere una forte scossa agli squilibri di tale scenario, per mezzo di un’iniziativa che un articolo pubblicato su «Nature news» non ha esitato a definire «a radical open-access initiative that could change the face of science publishing in just two years», e che effettivamente ha suscitato immediate reazioni da parte dell’associazione-ombrello degli editori scientifici internazionali. Si tratta di Plan S, promosso da Coalition S nel settembre 2018, e successivamente rivisto a seguito di una pubblica consultazione. Il manifesto della coalizione, Accelerating the transition to full and immediate Open Access to scientific publications, attualmente articolato in tre parti, si fonda su un obiettivo-chiave (target): «With effect from 2021, all scholarly publications on the results from research funded by public or private grants provided by national, regional and international research councils and funding bodies, must be published in Open Access Journals, on Open Access Platforms, or made immediately available through Open Access Repositories without embargo», con dieci principi che definiscono una serie di corollari (tra i più importanti: mantenimento del copyright in favore dell’autore, tramite licenze coerenti con i principi della Berlin Declaration; trasparenza delle politiche editoriali, in modo da permettere la fissazione di un tetto di spesa valevole in tutta Europa per la copertura del costo delle APC da parte dei finanziatori; adeguamento, da parte delle istituzioni di ricerca, delle proprie politiche OA; adeguamento, da parte degli editori, alla transizione del loro business model verso un OA pieno, mediante specifici transformative agreement per le riviste). All’enunciazione dei principi è collegato il piano di implementazione, dal quale emerge con ancora maggiore chiarezza lo scopo principale della coalizione: combattere le ambiguità dei modelli OA basati sulle riviste ibride, in cui vige l’odioso fenomeno del double dipping (doppio introito). Tale stortura è relativa al fatto che negli hybrid journal gli editori guadagnano tanto sulla tariffa (APC) a cui, salvo pochi casi, vengono assoggettati i singoli prodotti che gli autori decidono di pubblicare ad accesso aperto (coprendola, a seconda dei casi, a spese della propria istituzione, o grazie al contributo con vincolo OA ottenuto dal finanziatore, oppure a proprie spese) quanto, ovviamente, sulla concessione dell’accesso alla rimanente parte dei contenuti, che per l’utente finale rimane condizionato dalla barriera del pagamento (paywall) relativo alla rivista stessa (costo dell’abbonamento annuale) oppure a ciascun articolo (costo del download per singolo documento, indicato nella piattaforma dell’editore). Per risolvere il problema, i membri di Coalition S sono determinati a non finanziare più, a partire dal 2021, prodotti di ricerca ospitati in contesti editoriali che non soddisfino almeno una delle seguenti opzioni: a) pubblicazione in una rivista fully OA (via d’oro); b) pubblicazione in una rivista hybrid OA o subscription, ma senza alcun periodo di embargo per il deposito della versione editoriale definitiva (VoR, version of record) o del postprint referato (AAM, author’s accepted manuscript) in un repository OA idoneo (via verde); e accettano di finanziare temporaneamente (non oltre il 2024) i prodotti di ricerca pubblicati in riviste chiuse, ma solo a condizione che l’editore nel frattempo si sia sottoposto a un accordo di transizione verso l’OA entro una data certa. Forse è presto per scommettere in che misura la posizione spinta di Plan S possa influenzare in positivo le trattative presenti e future tra consorzi ed editori internazionali per i rinnovi degli abbonamenti alle riviste (big deal) da parte delle biblioteche di università ed enti di ricerca; certo è che diverse negoziazioni recenti, in alcuni casi segnate anche da rotture di accordi e periodi di cancellazione degli abbonamenti (il più noto è l’esempio della trattativa tra il consorzio tedesco DEAL ed Elsevier), testimoniano di una dialettica senza precedenti, mai come prima facendo intravedere all’orizzonte nuove soluzioni, come il modello read-and-publish (che integra in un unico accordo i costi degli abbonamenti e i costi per l’opzione OA da parte degli autori che pubblicano nelle riviste ibride dello stesso editore) e il modello publish-and-read (che considera il costo totale delle pubblicazioni OA nell’intero portfolio di un editore da parte di tutti i ricercatori di una stessa nazione in un anno, comprendendovi anche il diritto di accesso all’intero contenuto delle riviste).

L’anello debole: bibliometria versus accesso aperto

A me sembra però che lo studio britannico Monitoring the transition to open access prima citato, come del resto avviene per molti altri contributi sul tema, non centri a sufficienza un quinto fattore-chiave, credo il più dirimente rispetto a una possibile spinta propulsiva verso l’accesso aperto, e cioè il forte grado di dipendenza esistente tra gli strumenti di indicizzazione massiva dei prodotti dell’editoria scientifica globale e le dinamiche della valutazione scientifica, fondate in larga misura su sistemi di conteggio delle citazioni i cui dati sono rilevati all’interno di specifici database, mediante i relativi indicatori bibliometrici. Il punto debole, infatti, è che sia i database che gli indicatori su cui si appoggia l’intero sistema del research assessment purtroppo non sono governati e alimentati dalla comunità scientifica internazionale (i produttori della ricerca), ma si trovano nelle mani delle più grosse società editoriali che da quella ricerca traggono profitto. In altri termini, lo scenario attuale vede i grandi editori internazionali muoversi in modo più rapido, e spesso più efficace (a loro vantaggio), rispetto alle politiche istituzionali (locali, nazionali e internazionali), senza ormai limitarsi alla tradizionale funzione editoriale ma, al contrario, occupando quasi militarmente con i propri prodotti ogni tappa del ciclo di vita della comunicazione scientifica. Nel precedente numero di questa stessa rivista, a proposito delle mire espansionistiche dei colossi internazionali dell’editoria, è stato evidenziato, sulla base di un’analisi condotta dal Research Planning and Review Committee dell’ACRL, che

«l’ultimo atto di questo processo è quello in corso che vede i grossi editori espandere la loro attività verso tutti gli ambiti della ricerca scientifica, fino a coprire l’intero flusso del lavoro dei ricercatori, dall’idea di base alla disseminazione e comunicazione del risultato finale, e persino la successiva fase di valutazione, un tema divenuto centrale nella vita accademica».

Si tratta di una differenza di passo tra private vendor e public institution che ha finora rallentato, se non frenato quasi del tutto, lo sviluppo potenziale della scienza aperta, oltre a creare non poche perversioni nell’ecosistema della digital scholarship. Su questo terreno, appare fin troppo pervasivo lo spazio a tutt’oggi ricoperto da Web of Science di Clarivate Analytics e Scopus di Elsevier, le due banche dati bibliografico-citazionali di natura commerciale protagoniste (e tra loro antagoniste) negli ambiti della selezione critica e dell’indicizzazione di massa dei contenuti scientifici, impiegate non soltanto per i diversi scopi di reperimento dell’informazione e per l’accesso ai contenuti in lettura, bensì anche per finalità di misurazione e valutazione della ricerca, seguendo linee di sviluppo ormai lontane dallo spirito che animava Eugene Garfield quando nel 1955 scriveva il suo saggio Citation indexes for science. Sulle incongruenze dei sistemi bibliometrici, come sui rischi della loro applicazione secondo algoritmi o automatismi che non tengono sufficientemente conto delle molte variabili presenti nell’ecosistema della ricerca scientifica, è stato scritto molto. Senza volere ripetere concetti ormai consolidati, va ricordato che le questioni di fondo, in proposito, rimangono due: la prima riguarda il peso relativo da attribuire ai metodi basati sulla citation analysis rispetto a quelli basati sulla peer review; la seconda, strettamente connessa alla prima, riguarda l’abisso che ancora separa i procedimenti di valutazione dei prodotti scientifici nelle aree STM rispetto a quelle SSH (queste ultime, com’è noto, vengono tuttora etichettate pacificamente in negativo, come “non bibliometriche”). Viene da chiedersi se sia accettabile, in generale, continuare a insistere su una prassi di misurazione della scienza che applica una divaricazione aprioristica tra famiglie diverse di discipline, conferendo credito agli indicatori bibliometrici per le scienze dure ma negandone quasi del tutto la validità per le aree socio-umanistiche e, al contrario, accettando il valore della revisione tra pari per gli esercizi di valutazione nelle scienze umane e sociali, ma lasciandolo fuori quasi del tutto per le aree scientifico-tecniche e mediche. In Italia, con il passare degli anni, dopo i primi esercizi di assessment l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) ha assunto posizioni via via più sottili e più sfumate, come dimostrano l’inclusione della prassi della informed peer review ai fini della Valutazione della qualità della ricerca (VQR) e, per le aree non-bibliometriche, la classificazione delle riviste in due fasce (di eccellenza o “classe A”, e “scientifiche”) per le finalità dell’Abilitazione scientifica nazionale (ASN). A dispetto di ogni possibile correttivo agli strumenti di misurazione in funzione dei comportamenti dei ricercatori assistito da indicatori bibliometrici (ad esempio rivalutazione degli indici citazionali in base al numero di autori nelle pubblicazioni in co-autoraggio; pesatura secondo le diverse prassi citazionali rilevate per i diversi settori disciplinari; considerazione del prestigio delle riviste da cui provengono le citazioni ricevute da un articolo), gli esercizi di valutazione si scontrano sempre e comunque con un’altra discrasia, ancora più insidiosa, che riguarda i difetti intrinseci connessi alla dipendenza delle attività di misurazione e valutazione dai database proprietari, tra cui (a parte ovviamente le questioni del costo di abbonamenti e API) sono particolarmente vistosi: 1) l’arbitrio dei titolari dei rispettivi database nella scelta degli indicatori bibliometrici e delle categorie semantiche da impiegare per il ranking delle riviste; 2) la prerogativa, da parte dei medesimi titolari, di determinare i criteri di inclusione o meno delle riviste ai fini dell’indicizzazione e dei calcoli citazionali; 3) la loro differenziata, e in qualche caso insufficiente, copertura cronologica; 4) lo strapotere dei contenuti in lingua inglese versus la scarsa rappresentanza delle riviste in altre lingue; 5) il predominio dei contenuti di ambito STM rispetto a quelli di ambito SSH; 6) la predilezione per alcune tipologie di pubblicazione (soprattutto l’articolo su rivista) rispetto ad altre (ad esempio monografia o capitolo di libro).

Certo, non è sufficiente denunciare tali distorsioni, che pure sono sotto gli occhi di tutti; occorre individuare delle alternative credibili e praticabili. Pertanto, sarebbe fortemente auspicabile una maggiore ospitalità di WOS e Scopus in direzione di un deciso riequilibrio delle fonti di informazione, e quindi una maggiore convergenza di tutta la letteratura scientifica verso scenari bibliometrici che contemplino anche l’esame delle citazioni ricevute nei settori “non bibliometrici” e la valutazione dell’uso differenziato dei contenuti da parte della comunità degli studiosi (quantità di accessi, lettura digitale, numero di download, interazioni social). Ma forse, a questo punto, ancora più giusto sarebbe chiedere a noi stessi di ripensare completamente il sistema, provando a immaginare un’architettura informativa completa, affidabile e super partes autoprodotta con uno sforzo cooperativo della comunità scientifica, una knowledge base della ricerca scientifica globale che gli enti produttori dovrebbero costruire modellandola meglio sulle proprie esigenze, in modo che possa fare da supporto adeguato anche alla misurazione e alla valutazione dei prodotti secondo principi e criteri condivisi a livello internazionale, come DORA e il Manifesto di Leiden. Sembra che l’Unione europea abbia fatto una scelta di campo netta in questa direzione, dando seguito alle strategie avviate con Horizon 2020 con una visione d’insieme, descritta nella European Open Science Cloud Declaration, in cui i governi nazionali sono invitati a porre in essere dei piani nazionali per la realizzazione delle infrastrutture necessarie a fare diventare la scienza aperta una realtà. L’Europea Research Council (ERC) si è schierato con decisione a supporto attivo della Coalition S, nel tentativo di costringere l’editoria accademica internazionale a rivedere radicalmente i suoi modelli di business, per contribuire più positivamente, come sottolineato in un recente rapporto presentato da un nucleo internazionale di esperti alla Commissione europea, alle sfide che attendono la comunicazione scientifica e la conoscenza globale nel prossimo futuro

I “falsi amici” dell’accesso aperto e della bibliometria

Le soluzioni, chiaramente, non si possono trovare sul piano puro e semplice degli strumenti di impiego comune, come i database tool commerciali che combinano interfacce di ricerca con l’accesso diretto ai contenuti: piattaforme come EBSCOhost, ProQuest, IngentaConnect o anche J-STOR continuano a intervenire quasi esclusivamente come distributori, aggregando collezioni di risorse di più editori e negoziandone l’accesso federato per gli utenti finali, mentre i discovery service sono impiegati da ciascuna comunità accademica come facilitatori verso le risorse, per un’esperienza di ricerca integrata ed efficiente da parte degli utenti; ma l’accesso ai metadati, nell’uno e nell’altro caso, è regolato dai medesimi meccanismi riguardanti le licenze d’uso per l’editoria elettronica, pertanto non è pensabile che ne venga concesso un utilizzo per finalità di costruzione di basi di dati citazionali utili a rilevazioni bibliometriche “aperte”. Al contrario, è interessante rilevare come la più grossa impresa internazionale di editoria scientifica (Elsevier) si sia tempestivamente appropriata di un innovativo strumento di rilevazione dell’impatto delle pubblicazioni costruito sulle metriche di nuova generazione (web impact factor, usage factor, altmetrics) come Plum-X.

Lo stesso limite si riscontra guardando al moltiplicarsi delle iniziative di academic research exchange secondo modalità e con strumenti solo parzialmente indipendenti rispetto al sistema di distribuzione garantito dagli editori. Anche qui alcune distinzioni sono necessarie. Strumenti come SSRN e Mendeley ovvero come EndNote e Publons si collocano senz’altro nella sfera di interesse ormai onnicomprensiva rispetto ai target di mercato inerenti la comunicazione scientifica di cui dicevamo poc’anzi, oggetto di attenzione crescente da parte dei più grandi editori internazionali. Altre imprese di recente sono entrate in gioco limitatamente ad alcune aree/nicchie di tale mercato, sviluppando tecnologie più o meno aperte per trarre profitti dall’offerta di servizi che riguardano diversi anelli della scholarly communication: ReadCube, Impactstory, Bibsonomy sono solo alcuni esempi. Nessuno di tali sistemi, tuttavia, appare ancora dotato di una massa critica di informazioni tale da suggerire di prenderlo in considerazione per una nuova base dati citazionale che sia “concorrenziale” rispetto a WOS e Scopus, e soprattutto “aperta” e “riusabile” a fini di valutazione. Quanto a Google scholar, il carattere segreto dell’algoritmo sottostante al motore di ricerca accademico e allo sviluppo delle metriche, unitamente all’estrema imprecisione dei metadati descrittivi dei record bibliografici, derivante dall’impiego di mezzi semiautomatici e poco controllati per la costruzione del database citazionale, ne sanciscono finora un sostanziale fallimento rispetto all’ambizione di costituire la base informativa di cui l’open scholarly communication ha oggi bisogno.

Ma il quadro che abbiamo fin qui tracciato risulta fortemente mosso anche per via dell’impatto che hanno sulla disseminazione dei prodotti della ricerca e sulla visibilità dei ricercatori i cosiddetti academic social network a livello globale. Tra questi, a dispetto della loro finalità apertamente commerciale, spiccano per il tasso di gradimento da parte degli utenti alcune piattaforme come ResearchGate e Academia.edu. Ciò è dovuto, come sappiamo, alla loro capacità di combinare genuine offerte di servizi gratuiti di “vetrina scientifica” (creazione di profili di ricercatori sia individuali che corporate, possibilità di associare al profilo il portfolio di pubblicazioni, anche in modalità full text, possibilità di scambiare con la comunità domande e risposte su determinati topic tramite il blog collegato al sito ecc.) con altri vantaggi comuni a tutti i mezzi social (ad esempio notifiche e feed regolari su tematiche o attività di persone secondo i nostri interessi, monitoraggio del proprio impatto sulla comunità tramite il conteggio di follower, visite, social tagging e download) fino alla consultazione di statistiche d’uso e metriche specifiche proposte dal gestore. A questi servizi implicitamente collegata, a dire il vero con qualche forma di ipocrisia chiudendo gli occhi da entrambe le parti, la possibilità di caricare (per gli utenti/autori) o scaricare (per gli utenti/lettori) gratuitamente qualunque versione dei prodotti scientifici presenti nella piattaforma, e ciò a prescindere dagli accordi di copyright sottostanti alla pubblicazione dei lavori nelle sedi originarie. Di ciò, con altrettanta se non maggiore ipocrisia, i titolari delle academic networking platform non si fanno alcun carico, mentre per scansare possibili impicci legali con un apposito disclaimer nel loro sito web demandano agli autori/utenti la responsabilità del controllo di liceità del deposito del file – al contrario di quanto normalmente fanno le università con i contributi archiviati dai propri autori nei repository digitali.

Tra le soluzioni alternative estreme nel contrasto agli oligopoli internazionali vanno poi a collocarsi piattaforme dichiaratamente votate alla pirateria editoriale (cosiddette shadow library), come Sci-Hub, LibGen o Bookfi. Il fenomeno è stato di recente segnalato anche in questa rivista; qui ne accenno solo perché mi interessa sottolineare che il loro impiego indiscriminato non crea un danno oggettivamente perseguibile solo nei confronti dei produttori di contenuti sottoposti a toll access, come lamentato dai grossi editori (per tali contenuti, la soluzione corretta in eventuali trigger event incluse le fasi critiche dei rinnovi alla scadenza degli accordi per i big deal consisterebbe semmai nell’ottimizzare le opzioni offerte in forma del tutto legale dai dark preservation archive come Portico o CLOCCKS, anziché nel ricorso ai siti pirata). A ben vedere, le piattaforme illegittime di circolazione della letteratura scientifica producono effetti distorsivi altrettanto pesanti, se non di più, per chi sostiene l’obiettivo primario dello shift verso un nuovo ecosistema dell’editoria scientifica basato sull’Open Science («what is the point in an open access movement if anyone can download any paid article for free?» si chiedono candidamente alcuni ricercatori come riportato in un blog del sito web Torrent). L’aggravante è che i siti pirata, con le loro sbrigative affermazioni di endorsment in favore dell’OA, generano parecchia confusione, a scapito dei molti ricercatori ancora poco consapevoli, riguardo la natura stessa e i presupposti giuridicamente fondati dell’accesso aperto.

Infine, tra i falsi amici tanto dell’editoria tradizionale quanto delle forme sane delle innovazioni open access, si devono enumerare anche alcune iniziative-truffa che riescono a penetrare gli ambiti della digital scholarship e in letteratura vengono accomunate (pur essendo riferibili talvolta anche a situazioni diverse tra loro) sotto l’etichetta dei predatory journal (prodotti da altrettanto predatory publisher). Tale deplorevole quanto perdurante fenomeno consiste, com’è noto, in richieste push con promesse di pubblicazione immediata (a fronte di pagamenti altrettanto veloci per i presunti costi di pubblicazione), indirizzate in modo apparentemente random agli autori accademici perché contribuiscano al contenuto di riviste e atti di conferenze di spessore scientifico estremamente dubbio. Pertanto, è opportuno ribadire che la pretesa, di cui si ammanta l’editoria predatory, di favorire lo sviluppo dell’accesso libero e gratuito alla conoscenza scientifica rende un pessimo servizio all’editoria OA autentica, che è fondata sul corretto sviluppo di azioni e processi che ne certificano il valore scientifico (direzione scientifica, comitato di esperti, selezione e architettura dei contenuti, gestione del processo editoriale, uso di standard, protocolli e identificativi persistenti, revisione tra pari e controllo di qualità, indicizzazione e disseminazione). D’altronde, occorrerà riflettere un po’ meglio sul fatto che, se gli ambienti predatory, pur essendo privi delle garanzie minime di scientificità, abbondano di informazioni bibliometriche, incluso riferimenti a indicatori, metriche e fonti citazionali, del tutto prive di attendibilità, è perché evidentemente queste sono utili a soddisfare a buon mercato gli studiosi meno accorti (o, talvolta, in cattiva fede?) e quindi potenzialmente più pronti a lasciarsi gabbare. A sua volta, ciò indica con sufficiente chiarezza che in una fetta significativa della comunità accademica globale le contraddizioni esistenti nei sistemi di valutazione quantitativa della ricerca (da alcuni studiosi chiamate “asimmetrie informative”) stanno già producendo effetti altamente indesiderabili.

Conclusioni

A vent’anni dai profondi mutamenti verificatisi all’alba del nuovo millennio, la situazione che abbiamo davanti è che, da un lato, il movimento Open Access fatica ancora a compiere l’auspicata rivoluzione nelle pratiche della comunicazione scientifica, ed è lontano dall’avere raggiunto l’obiettivo di favorire una maggiore indipendenza dei ricercatori da vincoli finanziari nell’esposizione delle loro attività di ricerca (forse anche per i suoi “falsi amici”: pensiamo soprattutto al perdurante fenomeno dei predatory publisher, anche se sono oggi sotto attacco pure le ambiguità dei modelli OA ibridi basati sul sistema delle APC); dall’altro, gli esercizi di valutazione e misurazione della ricerca scientifica da parte delle agenzie nazionali dipendono sempre più dalle scelte adottate dei principali produttori di database citazionali. Una dipendenza che riguarda sia l’inclusione o meno di un prodotto della ricerca nei singoli database, sia le modalità di sviluppo e applicazione degli indicatori bibliometrici al materiale incluso per l’indicizzazione, sulla base di criteri che, sebbene si dimostrino parziali o poco ospitali, finiscono lo stesso per orientare pesantemente, come è ormai risaputo, le policy delle singole istituzioni e i comportamenti dei ricercatori.

Abbiamo cercato di descrivere le più recenti tendenze di questi fenomeni, intravedendo alcune possibili vie d’uscita guardando alla realtà internazionale, e provando anche a suggerire dei percorsi praticabili, in cui il ruolo dei bibliotecari accademici, anche nel contesto italiano apparentemente così periferico, potrebbe rivelarsi particolarmente rilevante. Per riassumerne alcuni: la consulenza personalizzata agli autori dell’ateneo, allo scopo di sostenerne gli sforzi per ottimizzare l’impatto qualitativo e citazionale dei loro prodotti; il supporto alla governance di ateneo nella creazione di strategie e strumenti efficaci per l’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche, sperabilmente a cominciare da un’architettura aperta dei repository e da un modello no profit per le proprie university press; le attività tecniche di manutenzione degli archivi istituzionali e il contributo al miglioramento della qualità e della coerenza delle informazioni nei database citazionali. A tutto ciò va aggiunta la capacità dei bibliotecari di sostenere efficacemente la ricerca istituzionale e la sua evaluation complessiva nonché la promozione, mediante le risorse e i servizi delle biblioteche, di attività utili alla divulgazione della ricerca per una migliore penetrazione territoriale, sia sul piano più strettamente scientifico che in senso più ampio, sul piano economico-sociale (è il contributo della professione bibliotecaria al cosiddetto public engagement ovvero alle attività di terza missione).

Mentre i bibliotecari si stanno impegnando a fare bene la propria parte, quello che si attende da troppo tempo è una strategia complessiva nazionale sulla comunicazione scientifica, all’interno della quale l’obbligo di conformare la legislazione italiana alla direttiva europea di turno sia visto, possibilmente, come una grande opportunità di sviluppo della ricerca in Italia: un’evoluzione che sarebbe bene cogliere in tutta la sua portata piuttosto che subirla passivamente, agendo anzitutto su una realizzazione piena e convincente dell’anagrafe nazionale prefigurata dal legislatore dieci anni fa. Nello stesso tempo, sarebbe auspicabile finalmente la costruzione di un’infrastruttura internazionale o perlomeno europea per l’intero workflow della ricerca finanziata con fondi pubblici, che permetta di affrancare definitivamente le nostre istituzioni dalla smisurata e anomala dipendenza nei confronti dei grandi portatori di interesse privato, percorrendo autonomamente e da protagonisti la strada del rinnovamento delle regole del gioco nei sistemi della comunicazione scientifica e della valutazione della ricerca, in tutte le sue sfaccettature.