N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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Prospettive per le biblioteche nel cyberspazio: verso una tipizzazione delle nuove forme di mediazione all’interno dei nuovi perimetri digitali

Lorenzo Soccavo

Institut Charles Cros, Paris; lorenzo.soccavo@wanadoo.fr

L'articolo è disponibile in lingua originale in "Risorse".

Traduzione dal francese a cura di Guido La Tartara.

Abstract

Le mutazioni rapide dei mezzi di comunicazione, di scambio e accesso alle informazioni, le trasformazioni sociali e le portate, talvolta sorprendenti, di crisi economiche, sanitarie e climatiche, dovrebbero spingerci a interrogarci sul concetto stesso di biblioteca nel mondo futuro che ci attende. La crisi pandemica di Covid-19 con il suo conseguente lockdown ci ha mostrato i limiti del modello attuale, basato quasi esclusivamente sull’accoglienza in strutture fisiche ubicate nei centri delle città. La digitalizzazione potrebbe offrirci degli spazi ulteriori e d’accompagnamento alla fruizione delle biblioteche pubbliche e non sostituirsi a queste, dato che l’evoluzione rapida delle interfacce di ricerca d’informazioni e consultazione e gli strumenti di lettura ci appaiono sempre più illegibili? Potremo un giorno accedere a distanza a delle biblioteche?

English abstract

The rapid changes in the means of communication, exchange and access to information, social transformations and the the astonishing range of economic, health and climatic crises, should question us about the future of libraries. Covid-19 and lockdown have shown the limits of the current model based almost exclusively on physical libraries located in city centres. Could digitalization open up spaces to support public libraries, and not replace them, even though the rapid evolution of interfaces seems to be increasingly illegible? Will we really be able to access libraries remotely in the future?

 

Ciò che il passato ci trasmette

L’etimologia del lemma “biblioteca” è strettamente connessa al duplice problema di collezionare e preservare delle opere. L’etimologia del termine è chiara: derivante dal greco bibliothêkê, da biblion (libro) e thêkê (luogo di deposito). I primi supporti di scrittura e lettura erano caratterizzati da una marcata fragilità alle condizioni atmosferiche. L’umidità, l’acqua, il fuoco e numerosi parassiti potevano compromettere la loro conservazione e durata nel tempo.

Anche se non possiamo valutare in termini certi le perdite avute nel corso dei secoli, possiamo comunque constatare che sono giunti a noi numerosi esemplari e testimonianze del passato relativi all’inventiva intellettuale dei nostri predecessori nelle loro preoccupazioni, che sono ancora oggi le stesse per noi, di comprendere l’universo nel quale la nostra specie animale –razionale – vive e di lasciarne traccia, di questa speculazione, alla posterità.

La prima domanda che dovremmo porci è quella della differenza di contesto che attualmente viviamo e, da una parte, della replicazione in catena dell’industria grafica, cartaria e di stampa – che producono in massa libri a costi ridotti e con una durata di vita limitata – e dall’altra, lo sviluppo delle edizioni digitali caratterizzate da un’obsolescenza rapida dei dispositivi di archiviazione e lettura dei documenti prodotti, oltre alla moltiplicazione di formati brevettati soggetti a incompatibilità di lettura.

Ma nonostante i punti indicati la missione fondamentale della figura del bibliotecario resta sostanzialmente la stessa da millenni: la conservazione di testi e immagini.

La digitalizzazione enfatizza il senso d’effimero percettibile dall’uomo, la connessione permanente nei nostri ritmi di vita indebolisce il nostro rapporto con il tempo. La storia delle civiltà umane, seppur effimere rispetto alle scale di tempo cosmologiche e delle loro cronologie, ci sembra da sempre eterna.

Il contesto, e le questioni essenziali relative alla permanenza delle biblioteche e dei libri nel mondo del futuro, rinvia ciascuno di noi – sia utenti sia bibliotecari – alla propria mortalità, ai propri timori, alle proprie angosce intime e represse, e pertanto l’incremento d’utilizzo dei sistemi e strumenti digitali tendono ad aumentare l’instabilità, alimentando in noi sentimenti di dubbio sulle nostre reali capacità di gestione del nostro ambiente e c’impongono la perdita di dati e informazioni come qualcosa d’inevitabile da dover accettare.

Così come tutte le opere della tradizione orale non furono riportate in forma scritta e come non tutti i manoscritti furono in seguito stampati, allo stesso modo non tutto ciò che oggi è stampato sarà digitalizzato.

Resta importante poter riportare in forma digitale il maggior numero di contenuti stampati, riconosciuti per i loro valori di testimonianza culturale e storica, e di conservare in stato di funzionamento i dispositivi elettronici che ne permettano la riproduzione.

Di pari importanza rimane la necessità di poter lavorare sull’interoperabilità dei dati e di lavorare attivamente in favore dello sviluppo di formati standard liberi da proprietà intellettuali.

Oltre alla loro intrinseca fragilità, come indicato, i libri erano considerati beni particolarmente preziosi poiché frutto di opere di produzione manuale e di copie manoscritte. Infatti, la loro diffusione era abbastanza limitata e lo stesso accesso alle biblioteche, che custodivano testi e volumi privati, era particolarmente limitato e selettivo.

Da una parte, il numero di analfabeti fu per molto tempo superiore a quello dei letterati, d’altra parte la lettura, solitamente endofasica – anche se vi impiegherà dei secoli per divenire la norma –, era vista come un’attività socialmente sospetta. I testi, intesi per ciò che erano realmente, cioé mezzi di trasporto di idee e pensieri, erano potenzialmente e preventivamente ritenuti dai potenti di turno come sviluppatori della libertà di pensiero e dello spirito critico dei lettori.

Il XXI secolo nel quale noi viviamo appare, semplicisticamente, come l’esatto opposto di questo passato appena citato. Ma probabilmente troppo semplicisticamente. Dovremmo invece restare vigili sugli orientamenti attuali che condizioneranno il nostro futuro, e tenere in considerazione gli storici per poter ottenere delle lezioni dal passato e tentare di distinguere ciò che per i bibliotecari risulta essere ancora oggi un dovere di trasmissione. Cosa i bibliotecari di oggi, per missione, dovrebbero trasmettere alle generazioni che li succederanno in termini di patrimonio culturale dell’umanità e in particolare di patrimonio scritto?

La questione che ci dovremmo porre è in quale misura potremmo comparare la rivoluzione culturale provocata dallo sviluppo delle tecniche di stampa in Europa a partire dalla seconda metà del XV secolo e le mutazioni attuali in corso nella nostra società contemporanea con lo sviluppo planetario dell’informatica e dei suoi avatar multipli, per ciò che ci concerne in questa sede, nel campo dei dispositivi e delle pratiche di lettura. In questo contesto le biblioteche pubbliche e le biblioteche universitarie dovrebbero rendere costanti due missioni: quella di salvaguardare e quella di condividere il sapere. In una sola parola potremmo parlare di trasmissione e questa missione trasversale potrebbe ricoprire ciò che comunemente definiamo oggi: la mediazione.

Mitanalisi delle biblioteche

La mitanalisi è il rilevamento di miti fondatori all’azione nel nostro quotidiano sotto diverse forme riattualizzate.

Nell’immaginario collettivo la biblioteca resta un luogo precisamente localizzabile sul territorio e più o meno richiuso in sé stesso. Posta tra tempio e cittadella del sapere, una metafora letteraria della biblioteca è quella del labirinto. Si pensi a Umberto Eco (Il nome della rosa), a Haruki Murakami (La strana biblioteca) e ovviamente a Jorge Luis Borges e al suo famoso incipit «l’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e probabilmente infinito, di gallerie esagonali, con al centro dei vasti pozzi d’aerazione bordati di balaustre molto basse» della sua celebre novella La biblioteca di Babele. Ma si pensi anche a L’ombra del vento di Carlo Ruiz Zafón con il suo cimitero dei libri perduti.

Nel corso del recente periodo storico durante il quale le biblioteche sono rimaste chiuse per via della pandemia, sono riemerse alcune pregresse opere distopiche del passato dove si erano già vissuti o immaginati dei confinamenti, e non a caso noi siamo stati numerosi nel riavvicinarci a grandi opere letterarie del patrimonio culturale come per esempio Il Decamerone di Giovanni Boccaccio. Oppure si rifletta su enunciati come il seguente di Charles Dantzig apparso in Pourquoi lire?: «la biblioteca è la sola concorrente dei cimiteri».

Nel mondo futuro le biblioteche dovranno rimanere accessibili ai comuni mortali, al di là di quelli che potranno essere i vari degradi del mondo, ma più ambizioso o ancora più folle diviene l’ipotesi che le immagini fantastiche delle biblioteche, generate nel mondo immaginifico, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie potranno raggiungere una densità costruttiva sufficiente e sufficientemente credibile per poter essere visitate da lettrici e lettori.

Alla mitica biblioteca di Alessandria o all’immaginaria biblioteca di Babele, di cui il solo nome rimanda all’eco della torre eponima, noi dovremo probabilmente accettare di passare da una visione utopica a una visione rinnovata e reimmaginata. Avremo la possibilità di reimmaginare i nostri progetti di bilioteca per il mondo del futuro.

La questione che diviene labirinto

In questo labirinto, che oggi diviene la questione stessa del futuro delle biblioteche del mondo di domani, è di vitale importanza evitare di recidere il filo d’Arianna, vero cordone ombelicale che lega la nostra umanità ai valori umanisti veicolati dai libri.

I grandi miti dell’umanità sono come fiumi del pensiero umano, capaci di trascinare i sedimenti del nostro immemore passato durante il loro corso tumultuoso e assordante, corso spesso inaudibile.

Da qualche parte nel nostro spirito contemporaneo dimora il riflesso di un doppio mistero: il primo relativo all’acquisizione della parola articolata, potenzialmente performativa, predittiva, quasi profetica, e in secondo luogo quello del passaggio da linguaggio invisibile (l’oralità) al linguaggio visibile (la scrittura). In assoluto, forse senza che i suoi dipendenti e funzionari ne fossero consapevoli, la biblioteca è stata crogiolo, ricettacolo, quasi l’athanor di questa magia delle parole che lasciano dietro il loro passaggio le loro impronte.

La stampa fisica, come ricordato, e la digitalizzazione oggi si limitano a ripetere e riprodurre. Ma fantasticamente questa immagine attorno al mistero della parola si è materializzato sia in grandi cattedrali sia in piccole cappelle che sono le attuali biblioteche. Victor Hugo – e non fu certo il solo – considerava le cattedrali come libri di pietra.

La nostra dimora primitiva è il linguaggio, il linguaggio si cristallizza nei libri e i libri risiedono in dimore collettive che sono le biblioteche. Le biblioteche possono potenzialmente divenire luogo privilegiato della rivelazione di una doppia metafora: il mondo come libro e il libro come mondo.

La domanda che ci si deve porre sarà dunque: quali orizzonti si delineano oggi d’innanzi a noi quando pensiamo al termine biblioteca?

È imperativo sognare un avvenire il più roseo possibile. Nel 1771 ad Amsterdam e poi nel 1774 a Londra, l’intellettuale illuminista francese Louis-Sebastien Mercier diede alle stampe L’anno 2440, sogno di cui non vi fu l’eguale (L’an deux mille quatre cent quarante, rêve s’il en fut jamais), che può essere considerato come il primo romanzo di anticipazione e nel quale la biblioteca, che all’epoca non poteva che essere quella del re (Capitolo 28), è particolarmente sorprendente: «al posto delle quattro sale d’immensa lunghezza e che contenevano migliaia di volumi, scoprii soltanto un piccolo ufficio dove vi erano diversi libri che non mi sembrarono per nulla voluminosi». E gli argomenti risultano avere buon senso: «noi abbiamo scoperto che una biblioteca fornita è l’incrocio delle più vive stravaganze e delle più folli chimere […] Nulla inganna più la comprensione che dei libri mal fatti; poichè le prime nozioni una volta adottate senza troppa attenzione, le seconde diventano delle conclusioni precipitose, e gli uomini così facendo marciano di pregiudizio in pregiudizio e d’errore in errore […] E in effetti cosa conteneva questa moltitudine di volumi? La maggior parte di loro contenevano ripetizioni continue della stessa cosa». Nell’anno 2440 avremo infine questa saggezza?

Di ciò che il passato ci trasmette noi dovremmo quindi prima estrarne delle lezioni, poter e saper distinguere cosa sarà nell’ordine dei valori singolari e fondamentali che dovremo preservare e a nostra volta trasmettere.

La mediazione non è solo comunicazione, nell’utilizzo di strumenti digitali e delle loro funzionalità multiple, spesso evolutive; è importante che i bibliotecari e coloro che ricoprono ruoli traversali nel campo dell’editoria, particolarmente attivi sul web e presenti a titolo personale o in rappresentanza delle loro istituzioni sui social, non utilizzino gli strumenti informatici unicamente per comunicare, ma ne sviluppino l’utilizzo in prospettiva di rinforzo alle azioni di mediazione.

La linea d’orizzonte

Il lemma “etimologia”, composto dalle radici greche di “vero” e “parola”, è letteralmente lo studio del vero senso delle parole. In altri termini potremmo dire che l’etimologia tocca l’anima delle parole.

Ripensare ai termini a partire da una riflessione etimologica permetterebbe di rimodellare le nostre idee ricevute e di superare i nostri eventuali pregiudizi corporatisti. Questo potrebbe divenire il primo passo verso una linea d’orizzonte, il primo passo verso un percorso generalizzato di redifinizione. Grande opera! Ridefinire parole i cui significati ci hanno accompagnato sino ad oggi permetterebbe d’immaginare intellettualmente che forme idealizzate potrebbero prendere domani delle biblioteche utopiche e potremmo interrogarci se già oggi tecnicamente (digitalmente) una realizzazione di questo tipo non sia possibile in un contesto che andremo qui di seguito a definire: il cyberspazio.

Per esempio, definire un libro come “un insieme di pagine stampate, rilegate tra loro e protette da una copertina” oppure definirlo come “un mezzo di locomozione nel mondo intellettuale o immaginario” ci proietta verso due futuri differenti, tanto per l’oggetto libro quanto per le pratiche di lettura che potremmo associarvi.

Le definizioni che noi applicheremo oggi alle parole di biblioteca e bibliotecario saranno quelle di cui noi seguiremo in seguito il solco, quelle nelle quali noi inseriremo il nostro cammino verso il futuro.

L’eccezionalità dei libri risiede in quella loro caratteristica intrinseca che ci permette psichicamente d’oltrepassare vincoli di tempo e di spazio fisico rispetto al momento della lettura: una sorta di viaggio mentale nel tempo e nello spazio. Fino ad oggi questo fenomeno è stato reso possibile dalla lettura endofasica dei testi scritti. Ma anche altri mezzi rispetto alla lettura, come ad esempio le esperienze estetiche, possono ugualmente concorrervi. Di fatto le biblioteche sono da tempo delle mediateche. Ma indipendentemente dalla natura della nostra lettura, didattica o di piacere, di manuali o fantasy, uno spazio intellettuale o uno spazio di finzione si apre alle lettrici e ai lettori. Nei due casi si tratta di passaggi verso un mondo immaginario. In questo senso, dato che i libri possono essere ridefiniti come mezzi di locomozione, le biblioteche potrebbero essere definite piattaforme aeroportuali, o basi di lancio spaziali.

Distinguere l’informazione dalla documentazione

Ridefinire necessita dapprima di poter distinguere i differenti fattori congiunturali. Ogni minuto nel mondo diversi milioni di contenuti vengono generati. Le biblioteche divengono esse stesse sempre più produttrici di contenuti. È indispensabile poter distinguere e trasmettere agli utenti la distinzione tra ciò che emerge dalla produzione di contenuti originali e le molteplici forme di declinazione e adattazione. Se una delle missioni primordiali dei bibliotecari resta ancora quella di mantenere il legame con la documentazione del passato e di aprire alla digitalizzazione dei contenuti stampati e/o manoscritti, questa si arricchisce oggi di una missione di servizio pubblico di formazione degli utenti agli strumenti digitali, alle metodologie di ricerca online e alla validazione critica dei contenuti.

L’informazione rende possibile la disinformazione (fake news). La documentazione apporta nutrimento intellettuale permettendo di oltrepassare il semplice stadio di riflessione. Informare significa contribuire a formare un’immagine della realtà. Documentare significa invece istruire offrendo i mezzi per poter pensare. In un mondo ideale, indipendentemente dai poteri politici ed economici, le biblioteche dovrebbero documentare e non informare.

Distinguere la digitalizzazione dal cyberspazio

Spesso le biblioteche digitali sono semplicemente dei siti web con un numero più o meno elevato di servizi associati. Nel peggiore dei casi sono dei motori di ricerca di testi con scarne informazioni relative all’indirizzo fisico della struttura, gli orari di apertura e le condizioni di accesso agli spazi di pertinenza.

Il cyberspazio è invece collocato in un’altra dimensione. Risulta essere una simulazione digitale che non si riduce alle funzionalità originali del web. Il concetto di cyberspazio, dal quale deriva il termine metaverse è una declinazione derivata da una finzione letteraria (il romanzo Snow crash di Neal Stephenson) che probabilmente rende meglio il potenziale di questa dimensione di spazio virtuale dove le persone fisiche connesse possono incontrarsi e avere scambi in condizioni analoghe a quelle dello spazio fisico ordinario. Il termine “internauta” in questo caso assume pienamente il suo significato: cioè quello di un viaggiatore di internet, e non solo un individuo quasi passivo d’innanzi a uno schermo di computer, simile a uno spettatore televisivo.

Nel cyberspazio l’internauta si proietta attivamente attraverso un avatar di pixel, un’immagine semplificata e simbolica di lui stesso che personalizza e adatta in base alle circostanze e in relazione alle sue esperienze di vita.

Il cyberspazio non prende in carico i vincoli biologici degli internauti e non potrà essere nemmeno in futuro un mondo di sostituzione totale. Ma sin da subito potrebbe, invece, diventare uno spazio di mediazione, un territorio parallelo che permette incontri e scambi a distanza.

L’esperienza del lockdown della primavera 2020 ha evidenziato l’urgenza di dover lavorare sulla messa a punto di soluzioni tecnologiche d’accesso non fisico, di relazioni e di lavoro condiviso a distanza.

Non si tratta quindi della sostituzione delle biblioteche fisiche con quelle virtuali, ma d’arricchire le reti di stabilimenti esistenti di una nuova maglia e di poter garantire anche in contesti di crisi il mantenimento e la prosecuzione dei servizi.

Per questo bisognerebbe che i bibliotecari, che già da diverso tempo impiegano blog e social media, possano esplorare e sfruttare le potenzialità d’utilizzo di queste nuove modalità di territori.

Una biblioteca è sempre una realtà relativa allo spazio, a un dato spazio definito: spazi immaginari che la parola e la lettura generano spontaneamente, e spazi vitali necessari per stoccare e preservare la massa esponenzialmente crescente di documenti di varia natura.

Le mutazioni in corso non modificano particolarmente questi aspetti. Da una parte, la dematerializzazione digitale è da ritenersi un’illusione cognitiva, talvolta sia per i bibliotecari quanto (più generalmente) dall’insieme di utenti degli strumenti connessi. Questa illusione cognitiva è alimentata anche da una sorta di duplice illusione ottica: dove grandi sale moderne, i learning center, equipaggiate principalmente con qualche computer dal design innovativo e schermi touch, che possono connettere gli utenti alla massa di dati del pianeta, oppure dal fatto che l’equivalente di una biblioteca intera composta da diverse migliaia di libri possa essere contenuta in un piccolo tablet o in dispositivi dotati di tecnologia a carta e inchiostro elettronico (e-paper, e-ink).

Invece, come sappiamo, in realtà dietro questo miraggio c’è una realtà fisica composta da server informatici e data center i cui i costi di gestione economica, d’impatto ecologico e la localizzazione geografica costituiscono una posta in gioco di natura geopolitica/strategica da dover necessariamente tenere in considerazione.

Biblioteche senza libri, soprattutto in ambito universitario, sono realtà attive e consolidate già da diversi anni e, nonostante questo, la Terra non ha smesso di girare.

Per le biblioteche del XXI secolo le potenzialità di questo genere di soluzioni sono però da ricercare nella possibilità di poter rilegare, come le pagine di un immenso libro, i differenti livelli di comunicazione e d’esercizio delle loro missioni. Potremmo quindi immaginare delle iper-biblioteche a tre livelli:

  • rete degli stabilimenti fisici esistenti in un dato territorio geografico;
  • una biblioteca digitale, vera interfaccia capace di offrire accesso ai cataloghi, la prenotazione di prestito, la consultazione e il download di contenuti multimediali;
  • uno stabilimento virtuale supplementare, capace di offrire a distanza servizi analoghi alla rete di stabilimenti fisici, comprese le possibilità d’incontro e scambio con bibliotecari e altri utenti.

Il metaverso precursore delle biblioteche del futuro?

Il concetto d’iper-biblioteche – talvolta fisiche in tutte le loro dimensioni storiche e virtualmente accessibili a distanza –, veri laboratori di sperimentazione e d’innovazione legati a dispositivi e pratiche di letture (al plurale) e di documentazione, implica già oggi la possibilità di poter lavorare allo studio e allo sviluppo di reali possibilità di accesso alle biblioteche in caso d’impossibilità fisiche dovute a incapacità personali temporanee (incidenti, immobilizzazioni momentanee ecc.) o permanenti (diversamente abili, per esempio), oppure in presenza di circostanze di carattere sociale e/o condizioni eccezionali (pandemie, coprifuoco ecc).

Tra non molto le tecnologie del mondo dell’intelligenza artificiale (software automatic learning capaci di mimare i processi cognitivi umani), della realtà aumentata (software che si sovrappongono alla realtà fisica per poterne arricchire dettagli e informazioni), della realtà virtuale (software in grado di sostituire alla realtà percepita delle simulazioni digitali), della visualizzazione spaziale dei dati (software capaci di convertire e rappresentare importanti masse di dati in ambienti spaziali 3D) e del mind mapping (carte di stampo euristico) saranno in grado di moltiplicare le potenzialità e facilitare la simbiosi dell’ecosistema mentale delle iper-biblioteche.

In parallelo, in un primo momento, i dispositivi come i robot (alcuni per la manutenzione e la sistemazione, altri interattivi per l’orientamento e le informazioni base per i visitatori) e i droni per gli scambi a distanza di beni fisici non digitalizzati – dispositivi già testati da società commerciali – potranno rendere alcuni servizi e contemporaneamente abituare bibliotecari e utenti al passaggio verso le biblioteche “del mondo (che sarebbe) a venire”.

Potenzialmente tutto è immaginabile. Praticamente molto sarà realizzabile. Ciò che è urgente da fare invece è dover determinare cosa sarà più desiderabile.

Distinguere il robot dal bibliotecario

Nella letteratura fantascientifica e fantasy, nei videogiochi e nelle serie TV, la figura del bibliotecario è spesso quella di una persona colta, nonostante le sue rappresentazioni fisiche siano spesso sgradevoli o caricaturali, e i dispositivi e le pratiche di lettura non sono in generale nulla di particolarmente straordinario.

Per esempio, in 2001 Odissea nello spazio, scritto nel 1968 da Arthur C. Clarke, i personaggi leggono dei libri stampati mentre gli schermi e i tablet sono utilizzai per dei contenuti multimediali. Buona intuizione potremmo dire, se consideriamo che è quasi precisamente la nostra situazione al momento dell’elaborazione di questo testo nel 2020, ma questo quasi – lo vedremo in seguito – fa tutta la differenza. In Rainbows end, uscito nel 2006, lo scrittore americano Vernor Vinge affronta le questioni della digitalizzazione e del libro multimediale. Nel 1965, nel primo libro della prima edizione del ciclo Dune, Frank Herbert immagina dei libri-bobina. Nel 1988, invece, Isaac Asimov in Prelude à fondation presenta dei video-libri.

Nella cultura geek, che abbraccia sia le culture dell’immaginario in senso ampio che quelle legate alle tecnologie e all’informatica, l’immagine stereotipata dei bibliotecari sono spesso rappresentazioni dal forte accento caricaturale: la bibliotecaria come vecchia zitella caratterizzata da chignon e occhiali, mentre il bibliotecario come un vecchio burbero con giacca grigia e… gli immancabili occhiali. Si veda per esempio il bibliotecario in Harry Potter di J.K. Rowling, in Star wars, in Ghostbusters… I bibliotecari presenti in Game of thrones, come quelli dei numerosi videogiochi, riprendono i cliché dei palazzi oscuri e misteriosi, di biblioteche che custodiscono segreti nascosti o dimenticati che possono aiutare il giocatore ad avanzare nella sua vita virtuale.

E se ci fosse un tale apporto d’aiuto anche nella vita reale? Dato che al di là delle finzioni, la missione dei bibliotecari in queste proiezioni immaginarie del futuro resta comunque quella di preservare ed educare: di trasmettere.

Anche se è già evidente che uno smartphone non potrà rimpiazzare un bibliotecario, nulla esclude l’ipotesi che un giorno imprese del settore informatico avranno interessi nel farcelo credere. La sfida per i bibliotecari quindi diviene quella di dover preservare la loro presenza animale, fisica, cioè mantenere la loro singolarità di spirito in un corpo biologico umano pur muovendosi all’interno di un contesto virtuale come quello di un software d’ambientazione. Per esempio, nel contesto delle iper-biblioteche sarebbe una buona cosa quella di avere assistenti vocali capaci di compensare presso il domicilio degli utenti la distanza fisica dalle biblioteche, ma per evitare che in futuro tali dispositivi non sostituiscano totalmente gli umani bisognerà fare in modo che i bibliotecari possano potersi preparare a comunicare a distanza con gli utenti anche attraverso caschi di realtà virtuale/aumentata oppure attraverso forme di teletrasporto olografico.

L’accesso al web, inoltre, tende verso la connessione ad applicazioni mobili che necessitano di una selezione a monte di contenuti che partono dal profilo dell’utente in funzione di scelte antecedenti. I contenuti offerti vengono così filtrati e proposti in numero ridotto, contingentando gli internauti, a loro insaputa, in una bolla cognitiva.

Per tutte queste ragioni, nel mondo futuro, le missioni dei bibliotecari dovranno essere, con l’aiuto delle tecnologie di punta, riorientate verso le loro peculiarità del passato.

Un possibile motto per i bibliotecari del XXI secolo potrebbe essere il seguente: con le luci del passato ci dirigiamo verso l’oscurità dell’avvenire.

Vedere oltre la linea d’orizzonte

L’idea di Borges in La Biblioteca di Babele coniuga di fondo le nozioni legate all’analisi combinatoria e al concetto di multiverso mutuato dalla meccanica quantistica. Il libro di sabbia, altra novella di Borges, che noi possiamo interpretare come premonitore del web, ma che potremmo anche accettare come profetico di un libro-biblioteca inesauribile, senza un inizio né una fine, può evocare un destino collettivo al di là dei limiti di cosa possiamo ordinariamente immaginare. L’infinito è immaginabile?

Di fatto, siamo abituati con i collegamenti ipertestuali e gli schermi tattili a degli itinerari cognitivi più plastici, tendenzialmente più intuitivi rispetto a quelli di un libro stampato. I collegamenti ipertestuali ci hanno preparato all’iper-libro? L’idea d’iper-biblioteca sarà quella di una collezione di iper-libri in una biblioteca che sarà l’universo? E ci dirigeremo anche verso la realizzazione della duplice metafora del mondo come libro e del libro come mondo?

Al progetto di una biblioteca digitale mondiale, prolungamento del sogno della mitica biblioteca di Alessandria, e coraggiosamente innescato nel 1971 da Michael Hart con il suo Project Gutenberg, fa eco un’altra novella di Borges, Il Congresso, e il suo sogno folle di una biblioteca universale per tutti: «la biblioteca del Congresso del Mondo non poteva limitarsi a delle opere di consultazione e le opere classiche di tutti i paesi e di tutte le lingue ne costituivano una vera testimonianza che noi non potevamo negligere senza pericolo». Nella narrativa la sua realizzazione abortisce e termina nelle fiamme per così portare il protagonista a poter scoprire che l’universo è la biblioteca o il libro universale, e che noi tutti siamo delle semplici lettere.

Inoltre, di fronte a questa biblioteca utopica germina nelle nostre visioni di futuro l’idea espressa da Neal Stephenson in L’era del diamante, cioè quella di un libro-biblioteca personale e unico, proprio di ogni individuo, che lo segue e lo guida durante tutto il percorso della sua vita. Una sorta di creazione ibrida tra il bibliotecario e l’angelo custode cristallizzato sotto la forma di un manuale intelligente e in qualche maniera vivente.

All’incrocio di queste due fantasie futuriste possiamo immaginare che un giorno masse imponenti di dati potranno effettivamente prendere forma. Dati relativi a documentari potrebbero apparirci sotto forma di una città o di una foresta dove noi potremo muoverci e camminare. Nell’antichità alcuni processi mnemotecnici diedero i natali a un’arte della memoria basata sulla produzione di reali mondi mentali nei quali i sapienti si spostavano con lo spirito.

Se in un futuro potremo proiettarci nelle immagini mentali spontaneamente generate dalle nostre letture, allora potremo incontrare delle intelligenze immaginarie. Potenzialmente le popolazioni di personaggi antropomorfi che popolano la narrativa sono degli extraterrestri con i quali un giorno potremmo entrare in contatto.

Una proposta d’itinerario

Una sola conclusione s’impone in maniera perentoria: quella dell’urgenza di dover adattare i corsi di formazione di biblioteconomia, aggiornare costantemente i contenuti e integrarne le dimensioni proprie dell’analisi strategica e in chiave prospettiva.

Cambiamenti strutturali profondi che ci obbligano a ridefinire delle nuove missioni sono in corso. Ma questi cambiamenti devono comunque restare in linea con il solco di quelle missioni tradizionalmente proprie dei bibliotecari.

Affinché le biblioteche, indipendentemente dalla loro forma, possano continuare a esistere nei secoli a venire, bisognerà fare in modo che ogni bibliotecario resti un bibliotecario e non si trasformi in archivista, né in un professore documentalista o in un lavoratore sociale.

Un giorno i bibliotecari dovranno, probabilmente, prendere individualmente il loro destino in mano ed esercitare la loro professione emancipandosi di tutele amministrative e istituzionali. Questo è uno dei possibili scenari evocati recentemente in un esercizio di giornalismo prospettivo per il periodico «FuturHebdo».

Al di là delle tecnologie, ciò che bisogna porre in questione sono le possibilità d’instaurare delle nuove forme di mediazione, in particolare quelle del testo e dell’immagine tra bibliotecario e utenti delle biblioteche. Immaginare quindi un nuovo contratto morale tra bibliotecari e utenti implicitamente fondato sui valori che hanno strutturato l’evoluzione del loro rapporto nel tempo.

La recente pandemia di Covid-19 e il lockdown conseguente hanno mostrato i limiti del modello attuale.

Oggi appare più che mai importante l’urgente necessità di reinvestire simbolicamente sia sui luoghi geograficamente localizzati sia sulle estensioni del cyberspazio, oltre che sulla funzione del bibliotecario in tutta la sua autentica storicità ma al contempo con la necessità di rivalutare positivamente le nozioni di servizio pubblico e di protezione dei beni comuni.

Dovremmo inserirci sia individualmente sia collettivamente in una cronologia che sia una timeline della speranza: una storia umana che non si ferma con la digitalizzazione, la connettività e la mobilità, che non si ferma alle frontiere delle leggi economiche, ma che continua a scrivere la propria storia al di là dei giganti del web, dell’industria culturale del divertimento di massa e soprattutto che si scriva in risposta alle distopie, alle oscure profezie dei collapsologi e alle narrazioni postapocalittiche degli smobilizzatori.

Al peggio, se le biblioteche dovessero sparire un giorno dalla Terra, i bibliotecari potranno e dovranno continuare a perpetrare la loro missione, anche se nel frattempo sotto un’altra denominazione: continuare cioè a trasmettere ciò che i libri veicolano, al di là delle loro metamorfosi, indipendentemente dal loro supporto che essi siano tavolette d’argilla o tavolette elettroniche.

Se lo vogliamo realmente, dalle digital humanities potrà emergere un nuovo Umanesimo e dal cyberspazio una nuova Repubblica delle lettere.