N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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Biblioteche e bisogni informativi: tra lockdown e quotidianità

Maurizio Lana

Dipartimento di Studi umanistici , Università degli studi del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”; maurizio.lana@uniupo.it

Per tutti i siti web la data di ultima consultazione è il 24 settembre 2020.

Abstract

In tempo di pandemia Covid-19 e di lockdown le biblioteche fisiche hanno chiuso, proprio quando i cittadini avevano maggior bisogno di luoghi ove accedere all’informazione corretta. È apparsa in evidenza, ancora una volta, le necessità di essere presenti sia nel mondo fisico sia nel mondo digitale. Ma mentre la presenza nel mondo fisico si è costruita nel corso dei secoli quella nel mondo digitale ha tutt’ora bisogno di strutturarsi in modo solido intorno al riconoscimento di che cosa sia l’informazione e di come le biblioteche possano svolgere un ruolo in connessione con essa. Collegare al periodo dell’epidemia questa riflessione complessa significa che le questioni, già di per sé stesse importanti vengono interpretate come espressione dell’empatia verso il lettore e dell’essere situati in un tempo e spazio specifici in cui operare come forza trasformativa.

English abstract

In times of Covid-19 pandemic and lockdown the physical libraries closed, just when the citizens had a bigger need of places where to access correct information. Once again, the need for the libraries to be present both in the physical world and in the digital world has been highlighted. But while the presence in the physical world has been built over the centuries, the presence in the digital world needs yet to be structured in a solid way around the recognition of what information is and how libraries can play a role in connection with it. Linking this complex reflection to the epidemic period means that the already important issues are interpreted as an expression of empathy towards the reader and of being located in a specific time and space in which to operate as a transformative force.

La biblioteca è – anche – un centro di accesso all’informazione e alla conoscenza, ma da anni internet sta erodendo il riconoscimento sociale di questo ruolo. Idealmente tale ruolo è trasversale alle forme (stampa, digitale) con cui informazione e conoscenza sono veicolate ma la realtà è differente, e “digitale” e “informazione” richiedono una riflessione, per quanto sintetica. Da un lato perché “digitale” non deve essere ridotto a identificare dei dispositivi o una tecnologia in quanto qualifica in realtà un intero mondo che interseca inestricabilmente quello fisico; dall’altro perché “informazione” non è un contenuto alieno, prevalentemente tecnologico (anche se molto spesso la parola ricorre nel nesso IT, “tecnologie” dell’informazione), e riguarda tutte le biblioteche, non solo quelle espressamente destinate agli studiosi. Infatti quando si parla di “informazione” – che pure può essere intesa in senso matematico (come fu per lo scritto fondativo di Shannon) – non è per nulla secondario il senso semantico come ha ben evidenziato Floridi: in termini più astratti «semantic information is wellformed, meaningful, and truthful data» e in termini più pop, che Floridi stesso utilizza, si può riflettere che il movimento di una pallina che rimbalza può essere descritto con le equazioni del moto (informazione in senso matematico) o con la cronaca di una finale di Wimbledon (informazione in senso semantico).

In questa prospettiva di “informazione in senso semantico” continuiamo a confrontarci con Bateson, e con la sua idea-chiave che «l’informazione è una differenza che crea una differenza»: di fronte all’infinita abbondanza di differenze che la realtà offre, la mente ne seleziona alcune che ritiene significative ed esse diventano informazione, catalizzatore di cambiamento e di trasformazione. In questo Bateson riprendeva la dicotomia mappa-territorio formulata quarant’anni prima da Korzybski: la mappa descrive il territorio selezionandone le caratteristiche (le “differenze” di Bateson) rilevanti, e proprio per questo esistono differenti mappe del medesimo territorio che servono a differenti scopi. L’importanza di questa fase di “osservazione del mondo” per individuare quali siano le differenze capaci di generare una differenza non nasce dal nulla ma richiede capacità analitiche e dialettiche/dialogiche “che precedono la biblioteca”. Ne è una testimonianza impressionante quanto scrive Melissa Leach, antropologa, a proposito delle azioni di contrasto all’epidemia di Ebola in Africa occidentale.

Quello che Leach ricorda a proposito dell’Ebola e quindi per una realtà che potremmo pensare non significativa per “noi”, “qui” e “ora”, è apparso in evidenza per tutti e dappertutto con la pandemia Covid-19 che ha mostrato (forse più ancora nel prosieguo che nei mesi iniziali) «quanto sia importante questo incontro tra gli scienziati e i cittadini, quanto l’aumentare le conoscenze scientifiche della popolazione sia importante per la società e anche per la democrazia». La biblioteca è uno dei luoghi dove può “avvenire”, ma forse sarebbe meglio dire dove si può “promuovere”, la crescita delle conoscenze scientifiche dei cittadini, proprio per quel ruolo di hub di accesso all’informazione e alla conoscenza. E ovviamente c’è bisogno che le biblioteche non chiudano, quando maggiore è la necessità di informazione e conoscenza corrette, fondate, autorevoli.

Questo ruolo centrale della biblioteca rispetto all’informazione e alla conoscenza non lo scopriamo oggi (possiamo menzionare paradigmaticamente i manifesti IFLA/Unesco per la public library e per internet, ma essi sono solo espressioni recenti e rilevanti di un continuum che risale indietro nel tempo) ma nel Nord ovest del mondo potevamo pensare forse di essere ormai “oltre”, che questo ruolo della biblioteca davvero centrale, “centrato nella quotidianità delle persone”, fosse solo di paesi, aree, continenti per noi remoti. E se anche ciò poteva essere parzialmente vero, dimenticavamo che le società sono costantemente in evoluzione – i mutamenti radicali portati dalla pandemia nel funzionamento della società lo mostrano. Ma soprattutto apparteniamo a società in cui distinguiamo sostanzialmente due macrotipologie di libri: “letture da tempo libero” (lean back) e “pubblicazioni scientifiche” (lean forward), ai quali corrispondono due forme molto diverse di biblioteca che si rivolgono a due tipologie ben caratterizzate di utenti. Questa polarizzazione ha in certo modo occultato quel significato della biblioteca come punto di accesso all’informazione per la trasformazione del mondo che altrove o in altri tempi fa sì che talora i libri vengano bruciati, talora vengano chiusi a chiave, talora vengano distrutte o chiuse le biblioteche. Ma oltre a questi indicatori in negativo ci sono anche indicazioni in positivo della capacità della biblioteca di operare nella, e per la, trasformazione del mondo: ricordiamo a titolo di esempio nel contesto italiano l’esperienza descritta su «AIB studi» da T. Paiano, e il progetto Sapere digitale della Biblioteca civica di Settimo Torinese; e in termini teorici/sistematici richiamiamo l’ampia prospettiva che Cees Hamelink espose nel 1976 e sulla quale ci soffermiamo brevemente:

Wherever one watches TV or reads a daily newspaper, «information about the world» is presented in incoherent fragments (especially in «newscasts») or in pre-digested explanations which can only be passively filed away. […] If, however, people are to be given the chance to intervene in their reality, then information channels have to be created that do permit the coherent organization of information. […] The process of becoming the object of one’s history has to start with the awareness of the immediate context and the consciousness that this context is changeable. […] Herewith, a vital step towards «information literacy» is the implementation of community centers which give access to a set of information resources with which the user can interact, i.e., ask for and receive information at his own initiative and in his own perceived self-interest.

In una società centrata sull’informazione come è quella attuale, un luogo “terzo” di accesso all’informazione che Hamelink descrive come «community center which gives access to a set of information resources with which the user can interact, i.e., ask for and receive information at his own initiative and in his own perceived self-interest» è una necessità imprescindibile che accomuna tutti i cittadini, siano essi studiosi per professione o no. Il tema della biblioteca come “luogo terzo” non è nuovo ma Hamelink vi porta un contributo specifico in quanto lo legge direttamente come spazio di empowerment di persone che vogliono diventare capaci di operare nella realtà perché i frammenti informativi incoerenti offerti dalla TV e dai giornali (era il 1976 – oggi Hamelink citerebbe forse altri soggetti che distribuiscono frammenti informativi incoerenti) non lo permettono.

Questa biblioteca/centro di comunità di accesso all’informazione concorre alla selezione batesiana delle differenze – concorre, perché la selezione avviene per effetto di ciò che fa pensare, sia esso un romanzo o un articolo scientifico (o un’esperienza, o altro). Cioè questo ruolo di centro di accesso all’informazione non riguarda solo le biblioteche scientifiche, ma tutte le biblioteche. Sfortunata – potremmo dire – la biblioteca che si vede troppo piccola o periferica o povera per poter avere e mettere a disposizione questa forza catalizzatrice.

Come abbiamo già ricordato sopra, ciò che il lockdown dovuto al Covid-19 ha fatto emergere a una consapevolezza più diffusa è che poter avere questo ruolo è necessario che le biblioteche siano (diventino, se non lo sono) transmediali, cioè che “operino fluidamente” tra mondo fisico e mondo digitale (tra contenuti a stampa e contenuti digitali) perché in questo modo anche se la sede nel mondo fisico viene temporaneamente chiusa esse possono continuare a essere vive e attive nel mondo digitale. Una biblioteca transmediale che si concepisce come centro di accesso a informazione e conoscenza valorizza la sua funzione in tempo di chiusura fisica perché quando più c’è bisogno di informazione corretta continua a essere aperta ai cittadini nel mondo digitale. Qui torna in evidenza il tema della comunità: ogni biblioteca ha una comunità di lettori di riferimento – essi in certa misura delineano l’orizzonte primario di attività della biblioteca – e rispetto a loro si specificano le attività di supporto, il tipo di informazione necessaria, i contenuti proposti. E una biblioteca presente anche nel mondo digitale ha modo di mantenere attiva la relazione sia con i lettori sia dei lettori fra loro. Non è per caso che diciamo “una biblioteca presente anche nel mondo digitale” e non “una biblioteca digitale”: perché parliamo di una presenza continua, fluida, attraverso mondi diversi e collegati. Parliamo di una biblioteca che interpreta la dimensione digitale come estensione della sua presenza nel mondo e non come mera aggiunta tecnologica.

To remain true to their mission, all libraries must undergo radical change. To serve the public in the face of unprecedented challenges, libraries will need to transition their services to the virtual space and explore new avenues to serve the public and bring people together, even while we are apart. […] But it would be irresponsible, and dare I say dangerous, to declare that the “library of the future” is here, and it’s only online. […] And let’s not forget the digital divide – a problem that exists across the country, in rural and urban communities alike.

Sono parole di Anthony Marx, presidente della New York Public Library, cioè di una biblioteca che ha 88 sedi fisiche, in cui appare in evidenza il bilanciamento complesso tra una presenza fisica irrinunciabile oltre che per le ragioni spesso ripetute anche per il digital divide, cioè per tenere conto delle molteplici forme e/o carenze delle varie literacy dei propri utenti e farvi fronte; e una presenza digitale anch’essa irrinunciabile se si vuole evitare che la biblioteca ammutolisca quando venga meno la possibilità di movimento nel mondo fisico.

Che cosa serve oggi a una biblioteca “fisica” che voglia essere (o diventare) “transmediale”? Possiamo sinteticamente elencare alcune caratteristiche, ciascuna delle quali richiederebbe in realtà un’esposizione ben più ampia:

  1. offerta di punti fisici di accesso alla rete e al mondo digitale: per gli studenti, per contribuire ad attualizzare il senso del diritto allo studio offrendo dispositivi e connessione, in un quadro di iniziativa globale dello Stato; ma anche per i cittadini perché con la pandemia abbiamo “scoperto” che l’accesso all’informazione è una necessità per tutti, ma nel mondo fisico è complicato seguire tempestivamente l’evoluzione dell’informazione, seguirla nel mondo digitale è più semplice se si hanno le competenze di base necessarie. L’offerta di punti fisici di accesso alla rete costituisce anche un importante indicatore visivo della transmedialità – da solo non la esaurisce, ma la segnala. Scriviamo “costituisce anche un indicatore” perché oggi i dispositivi di accesso alla rete sono diffusi e dunque la loro disponibilità in biblioteca se da un lato aiuta chi ne è privo dall’altro indica che la biblioteca è operante anche in quell’universo. L’offerta di connettività per chi ha il proprio dispositivo non è meno importante;
  2. offerta diffusa di formazione generale all’accesso all’informazione: per tutti gli utenti, perché riconoscere di aver bisogno di informazione è solo il primo passo: a esso fa seguito la necessità di formarsi la competenza per individuare le risorse informative, interrogarle, valutarle. Questa competenza è fornita/formata dai professionisti della biblioteca, differenziando e scalando i livelli in una prospettiva analoga all’evoluzione da aritmetica ad algebra ad analisi: si parte da conoscenze elementari/di base, indispensabili per tutti. Raggiungere chi non frequenta la biblioteca? Uno spunto di riflessione viene dai modelli angloamericani in cui la biblioteca è luogo di formazione e promozione non strettamente centrato sulla gestione e offerta di pubblicazioni (si va dal prestito di cravatte alla preparazione a un colloquio di lavoro, eminente per ampiezza di questa offerta la New York Public Library). Il criterio è “la biblioteca è là dove le persone vivono” – e una volta che la biblioteca conquista questo spazio, poi lì può parlare, anche di ciò che le è più proprio, e fare formazione;
  3. offerta diffusa di health literacy: la pandemia ha ampliato tra i cittadini la consapevolezza della “necessità di informazione”, in particolare sulla salute, come dicevamo sopra: «se la pandemia da CoViD-19 ha messo in evidenza il bisogno di terapie efficaci e vaccini, la contemporanea infodemia ha risvegliato nelle persone il bisogno di informazioni e di azioni sulla salute che siano solide e affidabili, ovvero ottenute mediante giusti confronti, altrimenti detti studi randomizzati e controllati» e dunque occorre conoscere come funziona il metodo scientifico, chi sono le autorità sanitarie (fonti affidabili di informazione sanitaria, in Italia e all’estero), criteri di base per il debunking di un’informazione di contenuto medico/scientifico, e così via. Non si tratta di diventare biologi o medici ma di formare all’individuazione dell’informazione corretta e affidabile in ambito medico-biologico – un’azione più metodologica che contenutistica. Non da oggi invece le risorse informative con il più ampio seguito sono i social e la televisione, seguiti dai giornali. In questo elenco le biblioteche non ci sono – comprensibilmente, perché non possono operare sull’immediata attualità della notizia. Ma possono operare efficacemente analizzando e ragionando su “unità di informazione” rilevanti: giusto a titolo di esempio, da un pragmatico “tra mascherine fai-da-te, chirurgiche, filtranti, quali proteggono meglio e perché?” a un più complesso “che cosa significa ‘diffusione del virus per aerosol’ e che cosa comporta per la vita quotidiana?”, o ancor più complesso “come si riconosce una fonte di informazione autorevole in campo medico o di salute?”;
  4. offerta di accesso libero all’informazione e alla conoscenza: come abbiamo ricordato al punto precedente la situazione di emergenza della pandemia ha messo in evidenza che non solo gli studiosi ma anche i cittadini “normali” hanno bisogno di accesso libero all’informazione e alla conoscenza. In altre parole, l’open access costituisce un’urgenza non solo dal punto di vista degli studiosi ma dal punto di vista della società intera;
  5. presenza e accessibilità della biblioteca nel mondo digitale: questo da un lato è ovvia conseguenza dei punti 3 e 4 citati, perché le risorse pubbliche affidabili e l’informazione scientifica di qualità in accesso aperto sono eminentemente digitali; ma dall’altro non deve mettere in ombra che una presenza significativa non si costruisce semplicemente “mostrando elenchi di risorse” bensì creando, costruendo, mantenendo comunità di e con i lettori. L’accesso libero all’informazione grazie al digitale è possibile sempre, ma il suo valore si moltiplica quando c’è chiusura dei luoghi fisici perché anche basandosi su di esso i professionisti delle biblioteche possono preparare infografiche tematiche, offrire webinar, predisporre Q&A a tema, mantenere dei blog, curare elenchi di risorse informative indispensabili (come una sorta di “cassetta di pronto soccorso informativo”) cioè possono continuare a svolgere la loro attività nei confronti della loro comunità di riferimento e della società del suo complesso.

Infine occorre assumere in modo forte l’essere situati: situati in un tempo, in uno spazio fisico, in un contesto sociale, culturale; e, collegato con questo, l’essere capaci di agire, cioè di incidere nella realtà del mondo. Due “essere” che comportano entrambi empatia, la quale come dice bene Ferrieri non è simpatia sentimentale per il lettore ma riconoscimento di essere coinvolti da un comune destino: si appartiene al medesimo tempo, spazio e contesto dei lettori. Per questo il ri-conoscere nella biblioteca “un” luogo deputato di accesso all’informazione richiede di: 1) esserci, essere presenti nel proprio tempo nonostante i suoi difetti, i suoi buchi, non per prenderne atto ma per trasformarlo; 2) sapere che informazione valida circola anche fuori dei circuiti della pubblicazione a stampa (o a stampa-evoluta) che hanno tempi controllabili e forme controllate (nel mondo digitale blog, siti web, social, sono veloci nell’evolvere e non catalogabili nelle forme consuete per le biblioteche). Ma lì scorre una parte importante dell’informazione.

In tutto questo ci si confronta, pensando specificamente alla pandemia, con il fatto che oggi se abbiamo abbastanza superato il divario digitale così come è stato inteso negli anni passati (ma non si sottolinea mai abbastanza che il divario evolve, cambiano con il tempo le forme in cui esso si esplicita, lo abbiamo rimarcato alla nota 26) abbiamo di fronte a noi un crescente divario informativo: tra persone che possiedono informazioni corrette; persone che possiedono informazioni scorrette/inadeguate/false e non lo sanno; persone che non possiedono informazioni. E queste disuguaglianze informative concorrono a dar luogo a disuguaglianze di salute (un esempio di base: se non so come una malattia si trasmette, sono più esposto a contagiarmi). Una biblioteca situata e consapevole di essere in grado di agire può fare molto per contrastare queste disuguaglianze. Una caratteristica che differenzia le biblioteche da altri contesti informativi è che esse “non sono nel flusso”, e questo che potrebbe essere inteso come un limite o un difetto noi crediamo che sia (o possa essere attualizzato come) un vantaggio: dal flusso delle notizie si estraggono “differenze che creano una differenza” (ad esempio: “il virus si diffonde per droplet e/o per aerosol” e questo crea una differenza perché dà luogo all’indicazione dell’uso delle mascherine ma anche a quella della necessità della circolazione d’aria) e su di esse si lavora.

Ciò che caratterizza, con intensità decrescente, i social, la televisione, i giornali, è un’esperienza informativa di “flusso” in cui a ogni istante la nuova unità informativa caccia indietro la precedente; tanto che recuperare una specifica informazione andando a cercarla indietro nel tempo benché possibile non è ovvio – infatti si fa raramente. Al contrario una caratteristica della biblioteca è che lì si cerca e recupera l’informazione anche se essa si trova indietro nel tempo – perché la biblioteca è una risorsa informativa che si basa sul catalogo e non sul flusso; e perché in tale prospettiva (di catalogo e non di flusso) si possono ri-finalizzare/ri-utilizzare anche le fonti informative di flusso per una lettura “fredda”, ragionata. Questo rimanda al tema della biblioteca transmediale, una biblioteca in cui la fruizione e studio delle fonti si muove fluidamente tra stampa e digitale facendoli interagire come parte di un unico e unitario universo informativo.

Perché ciò possa avvenire,

  • in un’ottica di breve periodo occorre che i professionisti che operano nelle biblioteche
      • siano consapevoli delle questioni in gioco;
      • abbiano (o si formino) le competenze necessarie (come ad esempio accade con il citato progetto Sapere digitale);
      • promuovano formazione in una prospettiva di information literacy;
  • in un’ottica di medio-lungo periodo i cittadini dovranno arrivare a possedere e usare autonomamente le competenze transmediali perché, come si è visto con la pandemia e il lockdown, saper lavorare efficacemente con risorse informative di molteplici tipi è parte ineliminabile dell’essere cittadini attivi e consapevoli.

Un tema trasversale e sotteso, irriducibilmente complesso, è quello dell’identità della biblioteca e dei suoi modelli. La nostra insistenza sugli aspetti del digitale non significa cedere alla «tentazione della postbiblioteca» bensì sottolineare che una biblioteca capace di una presenza significativa è come abbiamo detto una biblioteca situata, situata in un mondo in cui il digitale ha un ruolo dominante. E che dunque con esso dialoga “rischiosamente” da pari a pari. Riconoscere parità all’interlocutore apre alla possibilità di scoprire di essere in difetto, in errore, non così forti come si credeva; alla necessità di evolvere; ma questa componente di rischio è insita sia nell’essere situati sia nell’empatia.