N.1 2021 - Biblioteca, storia, memoria

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Archivi sonori per le musiche di tradizione orale: luoghi della memoria condivisa e centri di ricerca

Giovanni Giuriati

Dipartimento di Lettere e culture moderne, Sapienza Università di Roma, giovanni.giurati@uniroma1.it

Abstract

L’etnomusicologia, disciplina che si occupa delle musiche in prospettiva interculturale ha da sempre un profondo legame con gli archivi sonori, luogo di conservazione delle proprie fonti primarie, costituite da suoni e musiche prodotte in ambito di trasmissione orale. Nell’articolo si presentano la peculiare storia degli archivi sonori di musiche di tradizione orale in Italia e le nuove tendenze dell’etnomusicologia, disciplina che diventa sempre più storica e che proprio agli archivi si appoggia in questa sua trasformazione. Luoghi di memoria condivisa, gli archivi ritornano oggi centrali del dibattito internazionale dell’etnomusicologia che si trova ad affrontare nuove sfide poste dallo sviluppo delle nuove tecnologie digitali e da un mutato rapporto con le comunità in cui i documenti sonori sono stati registrati, innescando processi di restituzione e ritorno, affrontando questioni legate al diritto d’autore e allo sviluppo di processi di patrimonializzazione, rivendicando il valore di “bene culturale” agli archivi sonori.

English abstract

Ethnomusicology, a discipline that deals with music in an intercultural perspective, always kept a strong connection with sound archives, the place where its primary sources, consisting of sounds and music produced in the context of oral transmission, are preserved. The article presents the peculiar history of sound archives of music of oral tradition in Italy and the new trends of ethnomusicology, a discipline that is becoming increasingly historical and that, in its transformation, relies on archives. As places of shared memory, archives are now central to the international debate of this discipline, which is facing new challenges posed by the development of new digital technologies, and by a changed relationship with the communities in which sound documents were recorded, triggering processes of repatriation and return, addressing issues related to copyright and the development of heritagization processes, while claiming the recognition of “cultural heritage” for sound archives.

L’etnomusicologia, disciplina che si colloca tra musicologia e antropologia, si occupa primariamente della musica e dei suoni in una prospettiva antropologica e su basi interculturali o, come oggi si preferisce dire, transculturali. Insita alla disciplina è anche una prospettiva che intende indagare: «why, and how, human beings are musical» e che «it refers to the capacity of humans to create, perform, organize cognitively, react physically and emotionally to, and interpret the meanings of humanly organized sounds», per citare una recente definizione della disciplina proposta da Timothy Rice [Rice, 2014, p. 1]. In questa prospettiva che si propone di considerare tutte le espressioni musicali umane, appare evidente come le fonti a cui fa riferimento l’etnomusicologia siano solo in parte basate sulla scrittura, notazione musicale compresa, e come invece ricomprendano il vastissimo e variegato mondo della tradizione orale (e, ormai, della rimediazione). Le registrazioni sonore sono state, dunque, fin dai suoi inizi le fonti primarie di questa disciplina e i maggiori centri di ricerca annoverano nelle proprie collezioni, oltre a fondi librari, soprattutto raccolte sonore e audiovisive. Spesso proprio attorno agli archivi sonori si sono costituiti gruppi di ricerca e questi hanno fornito un fondamentale impulso per gli sviluppi delle teorie e dei metodi dell’etnomusicologia nel corso degli ultimi centoventi anni. In questo mio scritto vorrei tentare di indicare anche a chi non sia specialista della disciplina alcune principali linee di tendenza che possano servire a meglio comprendere il ruolo odierno degli archivi sonori negli sviluppi recenti della ricerca etnomusicologica, mettendo in evidenza le questioni principali che animano il dibattito sul ruolo che tali archivi debbano svolgere nel mondo contemporaneo.

Etnomusicologia e archivi sonori

Non è un caso che l’invenzione del fonografo da parte di Edison nel 1877 sia considerata come uno dei momenti fondativi dell’etnomusicologia (o musicologia comparata, come veniva allora chiamata). Già dal 1899 con la costituzione del Phonogrammarchiv a Vienna e dal 1900, anno in cui fu fondato il Phonogramm-Archiv a Berlino, è proprio attorno agli archivi che si concentrano le prime ricerche nell’ambito delle musiche extraeuropee. I primi studiosi alimentavano questi archivi con delle proprie registrazioni e raccoglievano registrazioni compiute da altri (funzionari coloniali, esploratori, missionari, militari, viaggiatori ecc.) potendole poi ascoltare, trascrivere, analizzare, comparare, pubblicare. Gli archivi berlinesi custodiscono ancora migliaia di documenti sonori relativi ai primi decenni della loro attività, quando le registrazioni si realizzavano con il fonografo, incidendo cilindri di cera. Sono documenti preziosi che risalgono fino alla fine dell’Ottocento e che sono stati oggetto negli ultimi anni di una estesa digitalizzazione e catalogazione [Ziegler, 2006].

Anche per quanto riguarda l’Italia, si colloca la nascita della etnomusicologia scientifica nel 1948 in concomitanza con la creazione da parte di Giorgio Nataletti a Roma del Centro nazionale di studi di musica popolare (CNSMP), archivio di registrazioni con sede presso l’Accademia nazionale di Santa Cecilia [Giannattasio, 1992, p. 67]. Prima di allora le registrazioni documentarie di musiche italiane di tradizione orale mancavano quasi del tutto, se si fa eccezione per alcune prime campagne condotte in Sardegna da Gavino Gabriel, primo direttore della Discoteca di Stato [Lutzu, 2012].A partire dal dopoguerra e fino a tutti gli anni Settanta il CNSMP, rinominato Archivi di etnomusicologia dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, ha raccolto migliaia di registrazioni relative al folklore musicale italiano, oggi consultabili (anche in parte online) presso la Bibliomediateca dell’Accademia in quella che è forse la più estesa collezione di registrazioni di musiche italiane di  tradizione orale. Un altro importante archivio a livello nazionale fu fondato nel 1962 da Diego Carpitella e Antonino Pagliaro presso la Discoteca di Stato (oggi Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, ICBSA). Si tratta dell’Archivio etnico linguistico-musicale (AELM) nel quale sono anche conservate migliaia di registrazioni di tradizioni orali cantate e non cantate relative soprattutto all’Italia e alle liturgie musicali in ambito mediterraneo. Se questi sono i principali archivi a livello nazionale (ai quali si può aggiungere anche quello del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, oggi divenuto parte del Museo delle civiltà), caratteristica peculiare del nostro Paese è quella di aver sviluppato nel corso della sua storia un assetto fortemente policentrico per cui si sono costituiti negli anni anche importanti archivi diffusi a livello locale nei quali sono conservate altre migliaia di documenti sonori relativi alle comunità di appartenenza. Non è possibile qui citarli per esteso ma, tra i più rappresentativi e primi in ordine di fondazione, si possono ricordare quantomeno l’Archivio etnografico siciliano nel quale sono confluite anche le registrazioni degli anni Settanta promosse dal Folkstudio di Palermo, l’Archivio di etnografia e storia sociale della Regione Lombardia e l’Archivio Ernesto De Martino. Proprio col fine di rendere noti e accessibili anche piccoli archivi locali, nasce in epoca “digitale” un recente progetto che si propone come portale di archivi già esistenti, sia a livello nazionale sia locale, per raccogliere online documenti relativi a diverse regioni italiane. Si tratta della Rete nazionale degli archivi sonori, promossa dall’Associazione culturale AltroSud d’intesa con la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Si tratta di un archivio con registrazioni audio e video di svariate raccolte depositate in istituzioni pubbliche e associazioni private relative alle regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Marche, Puglia, Umbria.

Dunque disponiamo oramai di un numero sterminato di documenti, soprattutto audio ma, a partire dagli anni Settanta, anche video, che “fotografano” un paesaggio sonoro di un’Italia contadina, pastorale e artigiana colto negli anni di una sua profonda trasformazione.

Per terminare questa sintetica rassegna occorre però citare il fatto che esistono nel nostro paese anche archivi non espressamente dedicati alle tradizioni musicali italiane. È il caso, ad esempio, dell’archivio dell’Istituto interculturale di studi musicali comparati della Fondazione Giorgio Cini di Venezia nel quale vengono conservate documentazioni audio e video di tradizioni musicali provenienti da diverse parti del mondo.

Etnomusicologia, storia, memoria

L’etnomusicologia, che si occupa principalmente di musiche “viventi”, ha per molto tempo vissuto calata nel presente, impegnata a documentare quanto più possibile musiche di tradizione orale che andavano scomparendo o trasformandosi in maniera profonda. Sin dal dopoguerra prevaleva quella che Carpitella definiva etnomusicologia d’urgenza, vale a dire l’intento di documentare il più possibile tradizioni musicali che fino allora non erano conosciute e che venivano allora “scoperte” dagli studiosi, dato che solo in quegli anni erano iniziate sistematiche campagne di registrazione delle musiche di tradizione orale. A tal proposito Carpitella scrive in un saggio che intende fare il punto sulle campagne di registrazione in Italia negli anni Settanta: «Il particolare ritardo degli studi etnomusicologici in Italia, in questo tipo di ricerca, giustifica l’aver voluto raccogliere anzitutto il più possibile, prima cioè che nuovi sviluppi socio-economici e culturali disperdano le più arcaiche testimonianze di musica popolare» [Carpitella, 1973, p. 53]. 

Questo campo di studi si sta anche aprendo in questi ultimi decenni a un altro fondamentale campo di ricerca che riguarda la dimensione diacronica degli studi e che pone nuovamente al centro del dibattito etnomusicologico gli archivi sonori. È questo uno dei profondi attuali cambiamenti nello studio delle musiche di tradizione orale per cui l’etnomusicologia può non essere più considerata esclusivamente come quella disciplina che si occupa di musiche “prive di storia” in una prospettiva prettamente sincronica – e in questo opposta alla musicologia storica –, ma come un campo di studi nel quale la prospettiva sincronica e diacronica dialogano sempre più fruttuosamente, quantomeno in un ambito temporale che si estende per poco più di un secolo.

Considerare le musiche di tradizione orale oggetto di riflessione storiografica non è una assoluta novità, dato che studiosi diversi, anche in Italia, soprattutto con Roberto Leydi, si erano interessati alla questione. In questa tendenza al recupero di una dimensione diacronica, il ruolo degli archivi sta mutando in maniera profonda. Mentre una volta essi fungevano da centro propulsivo di campagne di documentazione e da luogo dove depositare documenti sonori per studi futuri, tanto che, sempre per citare Carpitella, si lamentava spesso il divario tra a quantità di registrazioni e studi compiuti, oggi gli archivi sonori consentono all’etnomusicologia di proporsi anche come luogo di conservazione di significative tracce storiche di processi culturali e forme espressive di un passato più o meno lontano, eredità culturale custodita nella memoria, ma spesso non più viva nelle pratiche comunitarie. Una storia sonora che copre oltre un secolo di documentazione (abbiamo a nostra disposizione ormai un periodo di più di 120 anni di registrazioni, iniziate alla fine dell’Ottocento) consente di risalire molto indietro nel tempo, operare studi di tipo filologico, ricostruire vicende accadute nell’ultimo secolo in un confronto costante tra indagine diretta sul campo e ricerche d’archivio. La documentazione accumulata nel corso degli anni si rende oggi preziosa in una prospettiva di ricostruzione storico-musicale di fenomeni accaduti in passato nell’ambito delle musiche di tradizione orale, tanto più importanti quanto proprio queste registrazioni possono contribuire alla conservazione della memoria di ciò che non esiste più o che si è profondamente trasformato, alla comprensione di processi di cambiamento avvenuti su scale di tempo più o meno lunghe, allo studio delle trasformazioni avvenute nei repertori, nelle modalità esecutive, nelle funzioni, nel ruolo sociale, negli strumenti musicali di tante di quelle musiche per le quali abbiamo a disposizione un’ampia documentazione. La documentazione d’archivio consente anche di poter ripercorrere, con senso filologico e critico, le vicende della documentazione stessa, i fini, le scelte, i metodi, contribuendo a restituirci una storia degli studi aggiornata e, per certi versi, inedita.

Questo rinnovato ruolo degli archivi ha costretto gli studiosi negli ultimi decenni a ripensare prospettive metodologiche, protocolli e questioni di ricerca legate agli archivi sonori di documenti di tradizione orale, anche in ambito internazionale dove si è sviluppato un ampio dibattito.

In questa prospettiva molti di noi riscoprono tra le fonti di archivio importanti documenti (sonori) che ci possono far conoscere e interpretare periodi anche lontani della nostra storia, proprio attraverso i canti e le musiche strumentali. Un esempio illuminante a questo proposito è il lavoro recentemente compiuto da alcuni studiosi del Phonogramm-Archiv e del Lautarchiv di Berlino che hanno restaurato, digitalizzato e promosso lo studio della documentazione sonora dei prigionieri dei tedeschi durante la Prima guerra mondiale (diretti allora da Stumpf e Doegen), ora conservati nel Lautarchiv, divenuto parte dello Humboldt Forum für Kultur. Di questi documenti, per quanto riguarda l’Italia, si è occupato Ignazio Macchiarella che ha recentemente ripubblicato le registrazioni in un volume dal significativo titolo di Le voci ritrovate [Macchiarella - Tamburini, 2018].

Si faceva un tempo riferimento alla “perennità del folklore” e, pur essendo consapevoli che non tutto rimanesse così immutato, in fondo c’era una certo consenso implicito sulla grande conservatività della tradizione orale; oggi siamo consci dell’ampiezza di quei processi “invenzione della tradizione”, per citare il titolo di un importante volume [Hobsbawm - Ranger, 1994], che costituiscono forte motore di cambiamento in un assetto delle nostre società che sta anch’esso cambiando rapidamente e che pone al centro una riflessione su quelli che ormai sono divenuti patrimoni culturali.

E dunque gli archivi sonori, in questa prospettiva, vengono ad assumere un nuovo ruolo, molto più centrale nella nostra ricerca: luogo di studio, di promozione di nuove ricerche, termine di paragone per confronti diacronici, luogo di diffusione e divulgazione di documenti e di studi. Per citare Landau e Topp Fargion, gli archivi sonori stanno recentemente mutando di ruolo, con importanti sviluppi:

During the latter part of the twentieth century, the role, responsibilities and potential of sound archives developed in new directions, with more of a focus on the exploitation and dissemination of archival holdings. Such developments have arguably been influenced by political events such as de-colonisation and the rise of human rights and cultural reclamation discourses, but have been enabled, particularly in the past 10 years or so, by the digital revolution. The increased interest in archival sound recordings from cultural heritage communities, the ethical and moral responsibility of sound archives to facilitate access to their materials, and the increasing technological capabilities of archives has led to dramatic changes in archiving philosophy and access policies. One fundamental change for sound archives has been in the user profile of held materials. Who accesses the materials and how they do so are now central issues for archivists around the world. Archives are no longer for the ‘-ologists’ but for all learners, including the people whose cultures are represented in them wherever they are in the world [Landau - Topp Fargion, 2012, p. 128].

E anche per Thram, in maniera più sintetica, gli archivi sonori possono essere considerati come: «on-the-ground places that maintain collections of audio/visual recordings, photographic images and musical instruments that constitute cultural heritage in need of conservation, dissemination and repatriation» [Thram, 2014, p. 312].

Ritorni e restituzioni

La citazione riportata più sopra indica un cambio di paradigma nell’etnomusicologia che, nella seconda metà del Novecento, ha spesso trascurato gli archivi sonori, privilegiando la ricerca etnografica sul campo e una prospettiva antropologica in cui tantissime registrazioni avevano scopi più strettamente legati alle indagini compiute dai ricercatori che primari intenti di documentazione. Come scrive Seeger a proposito del lavoro di archivio: «This area was long considered one of the most stodgy and nineteenth century of our activities: the storage and dissemination of the byproducts of our research collecting» [Seeger, 2004, p. 94].

Da luogo dove si conservano prodotti secondari della ricerca, dunque, gli archivi sonori recuperano un ruolo propulsivo, diventando centri che, grazie all’aver conservato memoria di pratiche musicali del passato, possono servire per studi di tipo storico, ma anche come ambito di riferimento, di confronto, di stimolo per ciò che attualmente si fa di musicale nelle stesse zone da dove provengono i documenti sonori che vi sono depositati. Si possono operare oggi confronti, studi di tipo filologico, ricostruire vicende accadute nell’ultimo secolo in un confronto costante tra indagine diretta sul campo e ricerche d’archivio. La documentazione viene ormai costantemente utilizzata in una prospettiva di feedback, ormai diffusa già a partire dagli anni Ottanta del Novecento, secondo la quale i ricercatori ripropongono ai propri interlocutori le registrazioni in modo da confrontarsi su interpretazioni e analisi dei documenti, ma in forme di interazione più complesse e avanzate, in una prospettiva di etnomusicologia applicata e dialogica. Dal feedback si è poi passati, grazie anche allo sviluppo di nuove tecnologie, a pratiche che coinvolgono più direttamente le comunità dalle quali provengono le registrazioni conservate negli archivi. Tali sviluppi sono ben riassunti in questo passo:

[…] inspired by dramatic technological and ideological advances within audiovisual archiving, increasing numbers of archivists and ethnomusicologists have become involved in projects that seek to recover past documents for contemporary use amongst cultural heritage communities. In many ways these activities result from earlier methods of ‘feedback’ and more recent ideologies of reciprocity, and take them along their logical path, forming an innovative part of what we might perceive as an applied ethnomusicology ‘movement’. Some researchers have come to understand the varied ways in which archival sound recordings can be used by such communities, often playing valuable and significant roles within the cultural and social life of individuals and groups and simultaneously vastly assisting our understanding of history, culture and performance [Landau - Topp Fargion, 2012, p. 127].

Due sono i termini cruciali dal punto di vista del metodo: “ritorno” e “restituzione”.

Con il termine ritorno si fa riferimento a quella pratica per cui il ricercatore, a partire dalla documentazione d’archivio, ripercorre con senso filologico e critico le vicende della documentazione stessa, i fini, le scelte, i metodi di coloro che effettuarono le raccolte in passato. Per fare ciò, spesso organizza anche veri e propri “ritorni” negli stessi luoghi dove furono un tempo condotte le ricerche che vengono re-indagate proprio alla luce di quelle documentazioni ormai contestualizzate storicamente, misurandone i cambiamenti, le persistenze, le assenze. Questi ritorni si rivelano spesso molto utili per verificare, se possibile anche tramite interlocuzioni con i protagonisti di allora o con i loro discendenti, quali siano state le condizioni nelle quali furono condotte le ricerche come anche le trasformazioni intervenute nel corso degli anni, tanto nei repertori musicali, quanto nelle funzioni e, più generalmente nelle dinamiche sociali e culturali. Numerosi sono ormai gli esempi di ritorno sui luoghi delle raccolte. In Italia sono soprattutto le ricerche condotte da Alan Lomax e Diego Carpitella e dallo stesso Carpitella con Ernesto De Martino a essere oggetto di indagine in questa prospettiva, con esiti significativi. Si può qui citare a titolo di esempio il recente lavoro di Maurizio Agamennone sulle raccolte di Lomax e Carpitella nel Salento [Agamennone, 2017].  Questa pubblicazione fa parte di un progetto organico avviato alcuni anni fa presso l’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Il progetto, concepito da Francesco Giannattasio agli inizi degli anni Duemila, consiste nella riedizione in CD-book di alcune delle raccolte più importanti degli Archivi di etnomusicologia, per lo più risalenti agli anni Cinquanta. Nella collana denominata aEM sono così comparse, tra le prime, le registrazioni storiche della campagna di ricerca in Salento di Carpitella e De Martino [Agamennone, 2005], quelle tra le comunità albanofone della Calabria – sempre registrate da Carpitella e De Martino [Ricci - Tucci, 2006] – e molte altre curate da autorevoli studiosi in una serie che ha ormai largamente superato il decimo volume e che si segnala per i ritorni che gli studiosi hanno compiuto nei luoghi delle registrazioni originali alla ricerca di tracce risalenti ad almeno cinquant’anni prima. Si tratta di una pratica ormai largamente diffusa tra gli studiosi italiani. Anche Nicola Scaldaferri, ad esempio, ha più volte riflettuto sui processi di trasformazione di repertori e funzioni delle musiche tradizionali della Basilicata a partire da ritorni sul campo. In particolare, ha anche pubblicato un’interessante traccia di un lamento funebre cantato da una stessa esecutrice, Paolina Luisi, risultato del montaggio della registrazione di Carpitella e De Martino nel 1952 con una registrazione dello stesso Scaldaferri del 2003 [Scaldaferri - Vaja, 2006; Scaldaferri, 1994].

L’altro processo innescato dallo studio sulla documentazione d’archivio – presente anche nelle pubblicazioni citate qui sopra – che spesso si combina alla pratica del “ritorno”, consiste nella “restituzione” dei materiali alle comunità in modo che queste possano conservarne memoria anche localmente, utilizzando la documentazione per fini diversi: ricostruzione di cerimonie o feste; conservazione in musei o istituzioni locali; ricordo e memoria di persone che hanno svolto un ruolo musicale significativo per la propria comunità. Si tratta di un concetto ormai largamente presente anche nella prospettiva antropologica che riflette sulle forme in cui le nuove tecnologie e le trasformazioni culturali favoriscano pratiche di maggiore interazione tra ricercatori e comunità indagate, in passato come nel presente, anche in una prospettiva etica di riconsegna di patrimoni della propria memoria orale alle comunità che le hanno prodotte in passato.

Spesso la restituzione prende forma attraverso la pubblicazione dei materiali, in rete o su CD-ROM. A questo proposito, si può citare come esempio a livello internazionale la serie di CD-ROM edita dallo Ethnologische Museum di Berlino e dai suoi Phonogramm Archiv denominata Historische Klangdokumente. Questa serie prevede la ripubblicazione delle registrazioni su cilindri di cera conservate presso il museo berlinese in progetti che prevedono la collaborazione con istituzioni dei paesi dove le registrazioni furono raccolte, con un apparato critico curato da esperti di quell’area e di quei repertori musicali, rendendo così disponibili materiali preziosi. Del resto, in ambito etnomusicologico internazionale la questione della restituzione è particolarmente sentita come può testimoniare la recente pubblicazione dello Oxford handbook for musical repatriation [Gunderson - Lancefield - Woods, 2019].

Un altro progetto interessante e originale che combina in diverso modo l’idea della restituzione con quella della documentazione, digitalizzazione e salvaguardia è quello denominato Endangered archives della British Library. Con questo progetto vengono finanziati riversamenti digitali di archivi periferici, spesso, ma non necessariamente, in remoti paesi del globo, in modo che i materiali possano essere consultati e fruiti dalle popolazioni locali, mentre, al contempo, una copia digitale di salvaguardia e per consultazione viene depositata presso la British Library. Tra questi progetti, numerosi sono quelli che riguardano archivi sonori e audiovisivi, come, ad esempio, quello rivolto alla salvaguardia dei documenti sonori dello Sherif Harar City Museum, in Etiopia, curato da Simone Tarsitani.

Questi progetti di restituzione innescano processi virtuosi di interazione tra comunità locali, archivi e ricercatori. Innumerevoli sono gli esempi di musicisti locali che si rivolgono agli archivi per svariati motivi, tra i quali figura spesso anche quello del desiderio di re-imparare pratiche musicali o coreutiche dimenticate. Cito, tra tanti, quello spesso ricordato dallo studioso francese Simha Arom che racconta di come alcuni esponenti della Repubblica Centrafricana si sono recati alcuni anni fa da lui a Parigi per avere copia di alcune registrazioni di musica vocale che lui stesso aveva effettuato diversi decenni prima e le cui copie depositate in archivi locali erano andate perdute. Avendo le persone perduto memoria di come eseguirle, le registrazioni dello studioso erano rimaste l’unico mezzo per apprendere quei canti e per eseguirli di nuovo in occasione delle loro cerimonie. Un altro progetto molto interessante è quello promosso da Anthony Seeger tra i Suya dell’Amazzonia, le cui musiche ha lungamente studiato. In questo progetto Seeger ha collaborato, a partire da una richiesta della comunità locale, fornendo strumenti tecnici e metodologici per consentire ai Suya stessi di ricostruire e documentare una loro cerimonia rituale, con l’esplicita intenzione di poterla meglio tramandare alle giovani generazioni [Roberts, 1996].

Alcune questioni attuali: digitalizzazione, catalogazione, diritti, patrimonializzazione

Se riflettiamo sul ruolo degli archivi sonori di musiche di tradizione orale nei termini contemporanei vediamo che, in forte sintonia con altri campi delle pratiche archivistiche, alcune questioni diventano centrali nella riflessione teorica come anche nella gestione quotidiana.

Una prima questione importante riguarda la digitalizzazione. Si tratta di una pratica ormai necessaria di conservazione dei documenti che pone, tuttavia, numerosi problemi e costi sempre crescenti. Le procedure di digitalizzazione devono mantenersi al passo con il rapido sviluppo delle tecnologie – in questo caso soprattutto di campionamento del suono – e implicano spese rilevanti per quanto riguarda la conservazione dei file digitali relativi al riversamento dei documenti che, in particolare nel caso di audiovisivi, sono molto “pesanti” e occupano ingenti spazi di memoria sui server. Anche se i progetti di digitalizzazione sono fortemente incentivati nell’ambito dei finanziamenti destinati alla ricerca, essi pongono sfide importanti di sostenibilità agli archivi sonori, soprattutto ai piccoli archivi che non dispongono di solide istituzioni alle spalle. Da qui emerge un’esigenza sempre più sentita di condivisione in rete dei documenti e dei metadati che ha il pregio di favorire l’accessibilità alla documentazione che costituisce uno dei principali vantaggi della digitalizzazione. Oltre al già citato progetto della Rete nazionale degli archivi sonori, si possono menzionare importanti progetti a livello europeo come, ad esempio, Europeana o, per quanto riguarda gli strumenti musicali, MIMO (Musical instruments museums online) che consentono la consultazione in rete di migliaia di documenti sonori o, quantomeno, dei loro metadati.

Una seconda questione importante concerne la catalogazione. Si tratta di una questione complessa che non ha ancora trovato una risoluzione. Nel corso degli anni, a livello centrale sono stati proposti dei modelli di schedatura, spesso molto elaborati. Il primo tentativo sistematico è stato compiuto negli anni Settanta con la scheda FKM (folklore musicale) alla cui supervisione ha collaborato Diego Carpitella [Carpitella - Biagiola, 1978]. Tuttavia, tale standard non è mai stato largamente accettato e condiviso. La proposta più recente, nell’ambito del ICCD, è costituita dalla scheda denominata BDI (beni demoetnoantropologici immateriali) nella quale vengono ricomprese registrazioni sonore, audiovisive come anche documentazione fotografica. Anche questa scheda, molto accurata ma molto elaborata e complessa da compilare, presenta delle problematicità che non l’hanno resa di agevole uso nel sistema degli archivi sonori. Rimanendo nelle proposte di catalogazione a livello centrale, anche lo standard utilizzato dall’ICBSA per la catalogazione dei propri documenti, pur avendo il grande vantaggio di inserire i propri record nel più ampio sistema di catalogazione bibliografica a livello nazionale e internazionale – il Servizio bibliotecario nazionale (SBN) – ha come limite quello di essere concepito per la catalogazione di documenti librari e cartacei, mal adattandosi a catalogare documenti sonori di tradizione orale dove, giusto per fare un esempio, l’autore e il titolo – o, ancora di più, il titolo uniforme – non figurano sempre tra i campi principali di una scheda di un canto popolare, se non attraverso alcune forzature. Più complessa e raffinata, anche in relazione alle sue possibili applicazioni nella descrizione catalografica di documenti di tradizione orale, ma non ancora assorbita da SBN, è la normativa specialistica dedicata alle risorse musicali non pubblicatee [ICCU, 2018]. Non essendo stato adottato di fatto uno standard nazionale condiviso per la catalogazione dei documenti sonori e audiovisivi, accade che ciascun archivio abbia proceduto e proceda per proprio conto nella schedatura dei propri documenti. Le tecnologie digitali, ad ogni modo, forniscono oggi strumenti aggiornati per affrontare la questione da un diverso punto di vista. Faccio qui riferimento ai cosiddetti linked open data (LOD), tecnologia che consente di sviluppare un’interoperabilità tra archivi digitali: attraverso l’esposizione dei propri dati come LOD, allineati a opportune ontologie, si possono rendere interrogabili semanticamente più basi di dati contemporaneamente, senza procedere a una loro unificazione o uniformazione. Si tratta di tecnologie che si stanno sperimentando in questi ultimi anni e che sembrano indicare la possibilità di un cambio di passo nella condivisione dei documenti attraverso la rete.

La condivisione in rete dei documenti e la loro accessibilità, oggi richiesta con sempre maggiore forza dagli utenti, pone anche un’altra questione in gran parte irrisolta, vale a dire la titolarità dei diritti dei documenti sonori custoditi negli archivi. Come scrive Thram:

No longer only repositories for scholars, in the twenty-first century digital preservation, Internet access and online dissemination have become the status quo for many music archives that have access to the necessary technology and possess adequate Internet capability. In the wake of these developments, contemporary archives are faced with a complex array of ethical issues regarding research practice, rights to access and use, the potential for commercial exploitation and the need for repatriation of holdings. Archives increasingly have to grapple with these and other issues in relation to the practicalities of sustainability and effectively operating to their fullest potential [Thram, 2014, p. 313-314].

Questioni difficili da dipanare, soprattutto se facciamo riferimento a documentazione storica. Infatti, come scrivono Landau e Topp Fargion, chi conduce ricerche oggi osserva protocolli sempre più scrupolosi che prevedono consensi e liberatorie firmate da coloro che vengono documentati a fini di archivio:

Needless to say, digital technologies and the Internet have played a role; not only do people know they can access recordings, they now clearly expect to access them. Taking legal and ethical dimensions in our global information environment into consideration, these new opportunities for the application of our discipline have implications for all ethnomusicologists. Our methodologies for making, documenting and archiving our recordings, including the importance of getting permissions from people we record, have become paramount for a more equitable ethnomusicology [Landau - Topp Fargion, 2012, p. 218].

Tuttavia, il problema si pone nel momento in cui si ha a che fare con l’accesso in rete (o la pubblicazione) di documentazione storica, registrata in tempi in cui la prassi delle liberatorie non era così diffusa ed è molto complesso, per molti motivi, risalire chi sia oggi titolare dei diritti. Posso citare, a titolo di esempio, quanto ha riferito Lars Christian Koch, direttore dei Phonogramm-Archiv berlinesi, in occasione di un seminario organizzato alla Fondazione Cini di Venezia dedicato proprio alla questione del copyright [Koch, 2018]. Koch ha parlato in forma problematica del loro progetto di pubblicazione di un CD-ROM sui canti Navajo, con registrazioni dei primi decenni del Novecento in cui sia singoli eredi dei cantori registrati sia rappresentanti di associazioni diverse fornivano risposte contraddittorie e contrastanti riguardo al consenso per la pubblicazione dei documenti sonori, rendendo difficile poter stabilire se vi fosse accordo sulla “restituzione” delle registrazioni alla comunità e a chi spettasse giuridicamente l’effettiva titolarità dei diritti. Sulla questione dei diritti riguardanti le fonti orali si sta sviluppando un dibattito anche in Italia, non solo in ambito etnomusicologico. Un punto particolarmente aggiornato e ampio lo si può trovare, ad esempio, nel recentissimo Vademecum per il trattamento delle fonti orali, risultato di un ampio dibattito tra gli specialisti, promosso dall’Istituto centrale per gli archivi (ICAR) [ICAR, 2021]. Nel vademecum si trovano alcune importanti considerazioni di carattere generale su “accessibilità e valorizzazione delle fonti orali” formulate sulla base della normativa più recente. Per quanto riguarda la questione della pubblica accessibilità ai documenti di tradizione orale il maggiore ostacolo non è rappresentato tanto dal diritto d’autore – i brani di musica tradizionale sono considerati infatti opere di pubblico dominio al pari delle musiche per il quali sono scaduti i settant’anni dalla morte dell’autore – quanto piuttosto dalle questioni legate ai “diritti connessi”. Alla categoria degli “artisti interpreti” ed “esecutori” sono riconosciuti infatti i diritti esclusivi di autorizzare la fissazione, la riproduzione e la messa a disposizione al pubblico delle loro prestazioni artistiche. In assenza di esplicite e ampie liberatorie relative a tali autorizzazioni agli archivi sarà quindi preclusa la possibilità di rendere liberamente accessibili online le registrazioni da loro custodite. In questo caso sarebbe anche precluso l’uso di licenze Creative commons e la pubblicazione ad accesso aperto, che sono invece possibili nel momento in cui il ricercatore ottiene tutte le liberatorie necessarie nel momento della documentazione.

Un’ultima questione a cui vorrei solo brevemente accennare riguarda i processi di patrimonializzazione in atto per i quali gli archivi alle volte vengono considerati come asset economici in grado di produrre redditi attraverso una gestione privatistica delle risorse. Si tratta di una deriva che può avere anche un fondamento, per sopperire alle difficoltà economiche di gestione, ma che non deve dimenticare il ruolo fondamentale di questi istituti che conservano momenti di memoria collettiva di intere comunità e che, dunque, per loro natura, sono soprattutto luoghi di custodia di tali memorie che devono rimanere accessibili, per quanto possibile.

Archivi sonori come beni culturali

A conclusione di questo mio scritto vorrei proporre, riallacciandomi alla questione dei patrimoni, un ulteriore tema di riflessione, specificamente italiano, che riguarda gli archivi sonori, siano essi di musiche di tradizione orale o di tradizione scritta. Nella normativa del Ministero della cultura la musica è considerata e sostenuta in quanto spettacolo dal vivo, mentre non è contemplata nel Codice dei beni culturali del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). In altre parole, promozione pubblica e sostegno finanziario si applicano principalmente a musiche eseguite in forma di concerto o di spettacolo. Sappiamo bene, invece, quanto la musica faccia parte del complesso sistema dei beni culturali italiani da tutelare e da salvaguardare, oltre che da sostenere. Di questa carenza normativa risentono anche gli archivi sonori, dato che ne discende anche la mancanza di figure professionali specificamente formate per gestire tali istituzioni a livello nazionale e locale. Ciò è tanto più paradossale in quanto il Ministero annovera istituzioni nelle quali la componente musicale è largamente prevalente, come il Museo nazionale degli strumenti musicali, o l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, mentre non contempla nel suo organico alcuna figura di musicologo con titoli specifici.

Un particolare “bene musicale” sono gli archivi di musiche di tradizione orale (sonori e audiovisivi), di cui tradizionalmente si occupano soprattutto etnomusicologi, un bene che si trova all’intersezione tra materiale e immateriale, tra musica e demoetnoantropologia, con uno squilibrio dovuto al fatto che i beni demoetnoantropologici sono stati pienamente riconosciuti di recente e dotati anche di una direzione autonoma, mentre i beni musicali attendono ancora un loro riconoscimento specifico nell’ambito del Ministero. Inoltre, in particolare, l’etnomusicologia si trova negli ultimi anni a misurarsi con la definizione di cosa sia da considerare bene musicale (materiale e immateriale) anche alla luce della recente normativa emanata dall’Unesco, recepita dai comitati nazionali e regionali.

L’Associazione fra i docenti universitari italiani di musicologia (ADUIM), d’intesa con altre associazioni di musicologi, sta promuovendo da qualche tempo un’iniziativa volta a sensibilizzare le istituzioni su questa importante questione, sostenendo anche la riattivazione della Scuola di specializzazione in Beni musicali dell’Università degli studi di Bologna (Campus di Ravenna) che ha lo scopo di formare esperti nel campo della conservazione, tutela e promozione dei beni musicali, siano essi conservati in archivi, biblioteche-mediateche o musei e che prevede anche insegnamenti di discipline etnomusicologiche (Etnomusicologia dei patrimoni musicali).

Anche attraverso queste forme di riconoscimento, gli archivi sonori delle musiche di tradizione orale potranno consolidare e accrescere il loro ruolo, già rilevante, nel promuovere la ricerca e nel proporsi come luoghi in cui la memoria storica delle culture che hanno utilizzato e ancora utilizzano la tradizione orale come mezzo principale nella trasmissione dei loro saperi possa essere salvaguardata, valorizzata, restituita e portata alla conoscenza più vasta, anche grazie all’enorme sviluppo delle tecnologie nel mondo contemporaneo.